lunedì 26 novembre 2012

L’invidia di Jago per Cassio



Jago dichiara: Non deve essere; se rimane Cassio, egli ha una quotidiana bellezza nella sua vita, che fa brutto me”.
La violenza di questa percezione finisce per suscitare nell’animo di Jago l’invidia più profonda. Accecato dall’odio egli non può far altro che bramare la distruzione di Cassio, quindi l’eliminazione del raffronto che lo vede perdente, suscitandogli una dolente ferita narcisistica.

Ancora Jago: “Lavora lavora mio veleno! Così si prendono in trappola gli schiocchi ingenui, e proprio così donne oneste e virtuose, senza alcuna colpa, vengono accusate”.

In questo passo è evidente che la comunicazione malevola sarà l’arma con la quale Jago intende portare a termine il suo piano; si servirà della comunità in cui Othello vive per creare in lui una condizione di profondo malessere interiore, così che persone per nulla perfide finiranno per divenire strumenti inconsapevoli di una forma di violenza subdola quanto efficace.

William Shakespeare descrive la figura di Jago con sorprendente realismo. Ancora oggi nelle aziende è possibile trovare parallelismi, perché la spinta emotiva che innesca la violenza deriva dal fatto che Jago si è rivoltato contro il suo superiore gerarchico perché scavalcato mentre cercava di ottenere l’avanzamento di carriera che, più di altri, riteneva di aver meritato.

Chiunque abbia lavorato per qualche tempo in un’Impresa o in un’Istituzione può ben comprendere perché Jago diventa crudele. Sentirsi messi da parte può avere effetti terribili su un narcisista perverso. E questo è oltremodo vero quando il funzionario si adopera non per il bene dell’istituzione o per svolgere al meglio il suo compito lavorativo, ma solo per raggiungere una condizione di “potere” così che gli altri si inchinino davanti alla sua influenza.

Per queste persone la violenza è nell’animo. Nessuno deve osare frapporsi fra loro e la scalata al successo; nessuno deve osare rifiutare loro una collaborazione, una prestazione professionale, un appoggio, pena la vendetta.

Supponiamo che un alto dirigente di una grande azienda debba scegliere di valorizzare uno solo dei suoi venti collaboratori. Se il dirigente è motivato dall’interesse del bene comune, ovvero della prosperità del gruppo lavorativo, allora inevitabilmente sceglierà la persona con le qualità migliori. E così agisce Othello nel momento in cui preferisce il fiorentino Michele Cassio. Ma un dirigente con una personalità psicopatica perversa non ragiona così. Lui non ha a cuore il bene comune, ma solo l’affermazione personale a breve termine. Quindi sceglierà la persona che potrà garantirgli al contempo: un valido sostegno nella sua scellerata iniziativa, un’assenza di rischio nel valorizzare qualcuno che potrebbe poi dimostrarsi anche troppo abile e preparato così da metterlo in ombra, una ridotta possibilità di deludere un collaboratore particolarmente aggressivo.

Il dirigente psicopatico ragiona su questa linea: “Se valorizzo il narcisista di turno che fa di tutto per mettersi in mostra ma che lui stesso sa di non possedere quella professionalità e quelle qualità morali che servirebbero all’Azienda, io ottengo la sua devozione. Al contempo il collaboratore idealista che non verrà valorizzato continuerà ad impegnarsi allo stesso modo, con la stessa intensità di prima, perché non lavora per affermare se stesso ma per il bene dell’organizzazione. Diversamente il narcisista di turno farà di tutto per vendicarsi ed ostacolare la mia ascesa, cercherà di annientare il mio prestigio, e questo non deve accadere per nessuna ragione al mondo, anche a costo di distruggere o smembrare il reparto o l’azienda stessa”.

Evidentemente una qualche tutela per chi si ritrova Jago nel proprio ambiente di lavoro, è necessaria. Quella che era stata indicata nell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, una sua ragione di essere l’aveva.

giovedì 1 novembre 2012

Destabilizzare il nemico



Il primo atto della forma di violenza che intendo descrivere in questo spazio consiste nel destabilizzare il nemico con azioni emotivamente aggressive in misura direttamente proporzionale alla sua autostima, alla forza d’animo ed alla sua capacità di attuare contromisure.

Tra le diverse figure che si possono incontrare nei luoghi di lavoro, sia nel privato che nella pubblica amministrazione, ce ne sono due che hanno una forte aspirazione ad esercitare “potere”.

Il più delle volte questo desiderio di potere è in realtà dovuto ad ambizione personale, narcisismo. Chi desidera esercitare potere lo fa ignorando i suoi veri compiti professionali, il mandato istituzionale, perché deve appagare una spinta emotiva irrefrenabile che lo spinge a calpestare la dignità del prossimo pur di raggiungere il proprio fine. 
Esercitare potere, per queste persone, è il modo di dimostrare a se stessi che le loro convinzioni sono giuste, che il loro modo di intendere l’esistenza è l’unico ad essere autentico, che il fine giustifica i mezzi e tutto è permesso pur di veder affermare la propria figura. Del resto non gli importa nulla.

Una parte di coloro che ambiscono al potere agisce per scopi diametralmente opposti. Per riuscire a modificare in meglio un’organizzazione è necessario l’impiego di dinamiche di potere, ma in questo caso il “potere” non è il fine ultimo, ma solo il mezzo con il quale ottenere il cambiamento. Queste persone si riconoscono dal modo autentico di affrontare le difficoltà, di comunicare con gli altri, di analizzare le organizzazioni e le dinamiche relazionali fra gli operatori. Sono coloro che fanno progredire la comunità sociale non per un fine egoistico, ma per la semplice soddisfazione, ad esempio, di veder realizzare un’opera utile per la collettività a cui nessuno dava possibilità di riuscita.

Personalmente sono convinto che coloro che ambiscono al potere per un fine egoistico sono persone piatte, non in grado di comunicare calore umano, non in grado di trasmettere o riconoscere le emozioni con l’intensità attesa. Se parlano in un convegno i loro discorsi sono banali, infarciti di ovvietà, ripetitivi, dominati da concetti che richiamano un ipercontrollo delle situazioni, una visione delle organizzazioni come bianco o nero, giusto o sbagliato. E’ come se il loro emisfero sinistro del cervello, l’emisfero razionale, si sia organizzato per ignorare o disattivare l’emisfero destro, l’emisfero emotivo. Infatti una delle caratteristiche che potrete notare è l’abilità dialettica associata alla capacità di mentire in un modo indegno e senza la minima remora, il minimo scrupolo. 

Poiché queste persone ricercano il ruolo di prestigio non per realizzare un progetto ma per procurarsi ulteriore popolarità, una volta raggiunta una posizione di potere dedicheranno il loro tempo a fare favori ai dirigenti più elevati per accattivarseli, faranno crescere coloro che fanno parte della cerchia ristretta degli amici dei potenti perché possano costoro, in futuro, spendere una buona parola, ricambiare la cortesia. Le organizzazioni lavorative che hanno un simile capo si trasformano immancabilmente in baracconi ove gli adulatori ed i furbetti dominano incontrastati.

Questo scritto è rivolto soprattutto ai ragazzi che si sono da poco inseriti nel mondo del lavoro. La condizione di “ultimo arrivato” può essere superata con intelligenza da un dirigente capace ed intuitivo, ma può anche essere un evento particolarmente devastante. Se avete l’opportunità ed un minimo di capacità di analisi fate attenzione a come è stato organizzato il vostro inserimento, perché per le persone che desiderano esercitare potere per loro stessi potreste rappresentare un pericolo. Fate estremamente attenzione perché il destabilizzare il nemico con azioni emotivamente aggressive in misura direttamente proporzionale alla sua autostima, alla forza d’animo ed alla sua capacità di attuare contromisure, potrebbe vedervi come il bersaglio designato. 

Considerate che, tipicamente, le comunità lavorative dirette da una figura marcatamente narcisista sono governate in modo da nascondere le deviazioni organizzative, mentre vedrete addossare ingiustamente colpe alle persone più capaci, oppure semplicemente a coloro che più si espongono nel loro modo di lavorare. Un primo passo per non finire nella rete è quello di riconoscere le dinamiche di potere esercitate nel proprio ambiente di lavoro, qualunque esso sia.