mercoledì 28 agosto 2013

Difendersi dal Mobbing - I


Primo espediente

Non esiste una strategia di difesa efficace che possa essere sempre utilizzata; nel caso della violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, psichiche e morali, la difesa deve essere analizzata e ponderata di volta in volta.

Esistono però degli stratagemmi, degli espedienti non ortodossi che permettono di contrastare le iniziative dello psicopatico persecutore. Uno di questi espedienti consiste nel comunicare in modo paradossale, oppure ambiguo.

Questo quadretto rappresenta un esempio pratico.




Con questa tecnica di scrittura, leggendo velocemente, la frase è comprensibile a quasi tutte le persone ma, analizzando lettera per lettera le parole, si può osservare che la frase di Arthur Schopenhauer è tutta nella mente di chi legge.

domenica 25 agosto 2013

Invictus


Dal profondo della notte che mi avvolge, 
Nera come un pozzo da un capo all'altro, 
Ringrazio qualunque Dio esista 
Per la mia anima invincibile. 

Nella feroce stretta delle circostanze 
Non mi sono tirato indietro né ho gridato. 
Sotto i colpi d’ascia della sorte 
Il mio capo è sanguinante, ma non chino. 

Oltre questo luogo d'ira e di lacrime 
Si profila il solo orrore delle ombre, 
E ancora la minaccia degli anni 
Mi trova e mi troverà senza paura. 

Non importa quanto stretto sia il passaggio, 
Quanto piena di castighi sia la vita, 
Io sono il padrone del mio destino: 
Io sono il capitano della mia anima.

William Ernest Henley (1849 - 1903) Poeta inglese 

sabato 24 agosto 2013

Prendere riputazione - De Principatibus




II principe che conquista una regione diversa dagli altri suoi territori deve, come è noto, farsi capo e difensore dei vicini meno potenti, ingegnarsi di indebolire i potenti di quella sua nuova regione, ed evitare in tutti i modi che in essa penetri uno straniero potente quanto lui. Accadrà sempre che lo straniero verrà chiamato da coloro che in quella regione saranno malcontenti, o per troppa ambizione o per paura, come accadde ai Romani, che furono chiamati dagli Etoli in Grecia e che, in tutte le altre regioni in cui entrarono, furono chiamati dalla gente del luogo. È nell'ordine delle cose che, non appena un potente straniero entri in un territorio, tutti quelli che in esso sono meno potenti si uniscano a lui, mossi dal risentimento che provano contro chi è stato potente sopra di loro; e difatti lo straniero li conquista senza fatica, perché subito tutti insieme fanno volentieri causa comune con lui. 

Lo straniero deve soltanto preoccuparsi che essi non acquistino troppe forze e troppa autorità; e riuscirà facilmente, con le sue forze e con il loro aiuto, ad abbattere i potenti, per rimanere arbitro assoluto in quella regione. 

Chi non rispetterà bene queste norme, perderà quello che avrà conquistato e, fintante che lo conserverà, andrà incontro a infinite difficoltà e fastidi.

I Romani, nelle regioni conquistate, osservarono bene queste norme; istituirono colonie; tennero a bada i meno potenti, senza accrescerne il potere; abbatterono i potenti e impedirono agli stranieri di conquistare una buona riputazione. 

(Niccolò Machiavelli – Il Principe, versione in italiano di oggi di Piero Melograni, Superbur Classici, RCS Libri Spa - 2002 Milano)

giovedì 22 agosto 2013

Achille vede Patroclo piangere


“Così lottavano quelli intorno alla nave buoni scalmi.
E Patroclo giunse ad Achille pastore d’eserciti,
versando lacrime calde, come una polla d’acqua bruna,
che versa l’acqua scura da una roccia scoscesa.
Vedendolo n’ebbe pietà Achille glorioso, piede veloce,
e a lui si volse e gli disse parole fuggenti:
«Perché sei in pianto, Patroclo, come una bimba piccina,
che dietro la madre correndo, la forza a prenderla in braccio, 
le afferra la veste, la tira mentre cammina,
la guarda piangendo per essere presa in braccio?
Simile a questa Patroclo spandi tenere lacrime…»”.

(Iliade di Omero, Libro XVI, 1-11 - versione di Rosa Calzecchi Onesti, Giulio Einaudi Editore Spa, Torino)

giovedì 15 agosto 2013

Homo Sapiens Merdaiuolensis



Riprendiamo l’ambiente di lavoro di fantasia, una grande multinazionale che produce veicoli stradali e da cantiere. Immaginiamo che in un paese dell’America latina o dell’Asia vi sia la possibilità di accedere ad un mercato di milioni di dollari. E’ solo un’ipotesi che serve a mettere sotto i riflettori un argomento delicato quanto attuale. 

L’ufficio della multinazionale questa volta deve esaminare e decidere se è conveniente, opportuno oppure addirittura controproducente iniziare ad esportare i propri prodotti in quel paese potenzialmente interessante. I prodotti sono rivolti ad un mercato di nicchia. Sono ottime macchine, affidabili per la produttività e sicure per l’operatore, equipaggiate con motori a ciclo diesel di potenza variabile tra 200 kW e 400 kW, adatte quindi a lavorare in gradi opere come la costruzione di una diga, di un acquedotto, di una galleria, oppure in miniera. Per certi aspetti la valutazione è abbastanza semplice: non c’è concorrenza per questa fascia di mercato; inoltre è possibile in breve tempo esportare i pezzi di ricambio e formare personale per l’assistenza post-vendita, per la manutenzione ordinaria e per le riparazioni in caso di guasto. Il paese è esportatore di petrolio quindi non mancano gli investimenti pubblici e gli appalti. 

Il problema nasce da una serie di variabili esterne, per così dire. 

Il diritto non è garantito in quel paese, quindi la multinazionale potrebbe esporsi a dover affrontare rilevanti azioni legali per le motivazioni più svariate. Inoltre vi è una strana instabilità politica che influenza l’intera comunità sociale. Il risultato è che i Magistrati che operano in modo indipendente, con coscienza ed equilibrio, finiscono per essere elemento di disturbo in un contesto basato sui rapporti di forza. Coloro che, al contrario, operano con parzialità, hanno una rete di amicizie e compiacenze con chi ha ruoli e responsabilità politiche. Questa situazione, seppur di fatto tollerata dalla popolazione, ha comportato nel tempo una degenerazione dell’affidabilità della struttura economico-produttiva dell’intero paese. Da un lato il diritto commerciale è stato delegittimato al punto che risulta palesemente ed opportunamente orientato a favorire ed ostacolare un sistema oscuro, complesso e trasversale di interessi prevalentemente economici; dall’altro questa mutazione assolutistica ha lasciato ben poche risorse a chi non è inserito in questa rete di compiacenze e non è in grado di esprimere “dinamiche di potere” perché si affida ad una giustizia ipoteticamente uguale per tutti. 

Poiché è un esempio di fantasia a questo punto la multinazionale decide comunque di inserirsi in quel mercato. I benefici appaiono sufficientemente ampi rispetto ai rischi. La valutazione è stata fatta da un Manager esperto in esportazioni che ha consultato un gruppo ristretto di alti dirigenti. Ma, in breve tempo, al gruppo aziendale che segue questo inserimento arriva un rapporto fortemente negativo. Per una qualche strana ragione gli investimenti non hanno portato utili, le macchine non vengono acquistate e giacciono ferme nei magazzini e nei depositi. 

A questo punto riconosci il vero Manager, quello che fa gli interessi dell’azienda oltre ai suoi. 

Il responsabile che ha le qualità da vero leader analizza la situazione reale senza finzioni o pregiudizi. Si sposta dal suo ufficio, raggiunge il paese e cerca di comprendere anche le più piccole sfumature del mercato. Cerca gli errori che oggettivamente ha commesso. Parla direttamente con chi le macchine le ha provate, cerca di comprendere i veri motivi della rinuncia. Si affida ad una agenzia in grado di realizzare una pubblicità mirata. Studia la lingua e la cultura del luogo. Organizza incontri, convegni, ove illustra il rispetto per l’ambiente, le qualità dei prodotti, la ricerca e la tecnologia che c’è dietro. Insomma, si rimbocca le maniche perché è necessario farlo. Ma non va sempre così. A volte compare sulla scena un diretto discendente di una popolazione di ominidi per nulla estinti: gli Homo Sapiens Merdaiuolensis. Costui scriverà sul suo curriculum di aver avviato una importante iniziativa commerciale internazionale, accuserà di incapacità professionale anche il più lontano dei suoi collaboratori coinvolti nell’iniziativa spargendo la voce ai quattro venti e pretenderà una liquidazione di centinaia di migliaia di dollari, avendo già in tasca un nuovo contratto.

sabato 10 agosto 2013

Mobbing e Codice Penale – Corrispondenza biunivoca scomoda a molti




All’indomani della Sentenza della Suprema Corte di Cassazione – Sezione V penale - n. 33624 del 29.08.2007, i principali quotidiani del Paese hanno riportato alla collettività affermazioni sconfortanti del tipo: “Il Mobbing non è reato!”. Personalmente sono convinto che la decisione della Suprema Corte di Cassazione sia stata mal trasposta dagli organi d’informazione, ma, fatto sta, ne è seguito un acceso dibattito durato per settimane. 

A questo punto mi preme chiarire che il “reato di mobbing” certamente non è presente nel Codice Penale e difficilmente lo sarà in futuro. Perché il “mobbing” è una strategia, un’arma, un metodo, un procedimento per avvelenare a piccole gocce la psiche di un qualunque soggetto individuato come bersaglio in un contesto lavorativo. Non può comparire come reato, allo stesso modo di come non può configurarsi il “reato di pistola”, il “reato di pugnale” o il “reato di veleno”. Non è l’entità atta ad offendere in se, in questo caso la comunicazione, è l’uso che se ne fa che determina la violenza. 

Per assurdo anche l’acqua, elemento preponderante nel corpo umano, può essere utilizzata come arma per uccidere. E l’acqua, presente in tutte le abitazioni, è un bene che non può essere vietato; è necessario alla nostra sopravvivenza, al nostro sostentamento. Infatti non è mai esistito e non esisterà mai il “reato di acqua”. 

Per meglio chiarire si consideri che mediante il terrorismo psicologico, è possibile portare un familiare od una collega di lavoro al suicidio. Ma il reato penale che si commette sarà il delitto di Istigazione o aiuto al suicidio – Articolo 580 Codice Penale – non sarà il “reato di mobbing”.

Dopo questa necessaria premessa è possibile abbozzare un’analisi più complessa su come denunciare la violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, psichiche e morali, attuata per motivi di lavoro. Questa forma di violenza ha una sua struttura tipica che comprende:
  • l’iniziale comportamento ambiguo, paradossale, abnorme, violento o minaccioso finalizzato a destabilizzare la vittima designata;
  • il tentativo di assoggettamento indebito; 
  • la durata nel tempo di una condotta sempre più illegittima dell’aggressore quando esaminata unitariamente; 
  • la reiterazione delle azioni ostili inquadrabili come una forma di terrorismo psicologico (mobbing); 
  • l’esaurimento delle risorse e delle capacità di reazione dell’organismo della vittima designata dopo un tentativo di resistenza inefficace; 
  • un danno da rottura dell’equilibrio psicofisico ingiustamente provocato.
Questa struttura di violenza può comprendere anche iniziative riconducibili alla Diffamazione (articolo 595 Codice Penale), all’Ingiuria (articolo 594 Codice Penale), all’Abuso d’ufficio (articolo 323 Codice Penale), ovvero ad atti che, anche singolarmente, possono essere ricondotti ad un reato penale.

Se è così, a maggior ragione l’intera strategia violenta deve essere considerata, per forza di cose, un atto penalmente perseguibile.

Infatti nel nostro ordinamento la struttura di violenza così articolata:
  • una condotta violenta o minacciosa,
  • una condotta di coartazione che possa essere considerata illegittima,
  • un danno ingiustamente provocato,
è riconducibile direttamente all’articolo 610 Codice Penale - Violenza privata “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni”.  

Nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze è possibile consultare il libro “Programma del Corso di Diritto Criminale – Parte Speciale, Esposizione dei delitti in specie”, 9ª edizione (1908), presentato alla Regia Università degli Studi di Pisa ed esposto dal Giurista Francesco Carrara (1805-1888). La trattazione del reato di “Violenza Privata” è presente nel Volume II ed è possibile leggere: “La libertà dell’uomo individuo non è l’injuriae licentia, ma quell’autonomia riconosciuta e protetta dalla Legge, in virtù della quale l’uomo deve essere rispettato nel libero determinarsi ai vari atti della vita”. Il libro non è in perfette condizioni, alcune pagine le ho separate io nel 2005 perché rimaste incollate dal fango dell’alluvione del 1966.

Nella stessa Biblioteca, nel testo del Giurista Giulio Crivellari sulla Violenza Privata è possibile leggere: “La libertà individuale è la costante facoltà dell’uomo di esercitare le attività proprie, così fisiche così morali, al servizio dei propri bisogni. Senza questo sarebbe inutile l’esistenza e la integrità personale, le quali non sono beni in loro stesse ma in quanto servano di strumento all’esercizio della attività personale”.

Il nome “Violenza Privata” deriva dal fatto che nel Codice Sardo e nel Codice Toscano (Codice Penale del Granducato di Toscana del 1853) esisteva la “Violenza Pubblica” associata alla indebita incarcerazione effettuata da un pubblico funzionario, e la “Violenza Privata” quando la limitazione della libertà veniva effettuata da un privato cittadino.

Si osservino inoltre anche le seguenti considerazioni:
  1. L’obiettività giuridica del delitto di violenza privata consiste nella tutela della libertà psichica e morale contro le costrizioni a fare, tollerare od omettere qualche cosa - la costrizione, mediante violenza o minaccia, deve essere ingiusta, cioè non autorizzata da alcuna norma giuridica - l’azione deve considerarsi unica anche in presenza di una pluralità di atti tipici, quando questi si presentino offensivi del medesimo interesse tutelato e si svolgano in unico contesto. 
  2. Per la sussistenza del delitto di violenza privata non è necessario che la condotta dell’agente sia diretta a conseguire un fine illecito; infatti il dolo consiste nella coscienza e volontà di convincere altri, mediante violenza o minaccia, a fare, tollerare od omettere qualcosa, senza che occorra il concorso di un fine particolare. 
  3. Nel delitto di violenza privata l’elemento della violenza è costituito dall’esplicarsi di una qualsiasi energia fisica da cui derivi una coazione personale - non rileva, pertanto, ne la qualità dei mezzi adoperati, ne che essi siano diretti od indiretti, di carattere materiale o psicologico, occorrendo solo l’idoneità di essi al raggiungimento dello scopo che è quello di costringere altri a fare, tollerare od omettere qualcosa. 
  4. Per violenza deve intendersi non solo quella fisica, che si esplica direttamente sulla vittima, ma anche quella impropria che si esplica attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui al fine di costringere l’offeso a fare, tollerare od omettere qualcosa. 
  5. Ai fini del delitto di violenza privata non occorre che la violenza sia usata direttamente sulla persona dell’offeso, ma può essere rivolta anche contro una terza persona o cadere sulle cose, quando sia idonea, seppure per via indiretta, a raggiungere lo scopo di costringere il soggetto passivo a fare, tollerare od omettere qualcosa; tale costrizione può essere realizzata con i mezzi più diversi, la cui idoneità va valutata anche in rapporto alle condizioni fisiche e psichiche del soggetto passivo che si intende privare della capacità di autodeterminazione secondo la propria libera volontà. Quando tale costrizione non si sia verificata per fatto indipendente dalla volontà del colpevole è configurabile il tentativo di violenza privata. 
  6. Ai fini del delitto di violenza privata non è richiesta una minaccia verbale o esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento, sia verso il soggetto passivo, sia verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, onde ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa. 
  7. Ai fini del reato di violenza privata, nella nozione di minaccia rientra qualsiasi comportamento o atteggiamento intimidatorio dell’agente, che sia idoneo ad eliminare o ridurre sensibilmente nel soggetto passivo la capacità di determinarsi e di agire secondo la propria volontà indipendente. Pertanto non occorre una minaccia verbale od esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento, tanto verso il soggetto passivo tanto verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, onde ottenere che, mediante intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualche cosa. 
  8. Ai fini del delitto di violenza privata non occorre una minaccia verbale o esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento o atteggiamento intimidatorio che, avuto riguardo alle condizioni ambientali in cui il fatto si svolge, sia idoneo ad eliminare o a ridurre sensibilmente nel soggetto passivo la capacità di determinarsi ed agire secondo la propria volontà. 
  9. II delitto di violenza privata tende a garantire non la libertà fisica o di movimento, bensì la libertà psichica dell’individuo e perciò si realizza quando l’agente, col suo comportamento violento o intimidatorio, eserciti una coartazione, diretta od indiretta, sulla libertà di volere o di agire del soggetto passivo, cosi da costringerlo a una certa azione, tolleranza od omissione - presupposto essenziale del delitto è dunque la preesistenza di una libertà di determinazione e di azione di chi subisce la condotta criminosa ed il reato deve ritenersi consumato nel momento in cui il soggetto passivo, a seguito della violenza o della minaccia, sia rimasto costretto contro la sua volontà a fare, tollerare od omettere qualche cosa, mentre si ha soltanto tentativo, sempre che ne ricorrano tutti gli altri requisiti, allorché non sia stato raggiunto l’effetto voluto - questo effetto è quello che l’agente si propone di realizzare e si identifica pertanto anche nella prospettiva psicologica, con lo scopo di costringere altri a tenere un determinato comportamento, senza che abbiano rilievo rispetto a quello immediatamente perseguito, fini ulteriori o mediati e tanto meno i particolari motivi dell’azione. 
Qualora la vittima abbia maturato anche conseguenze serie sullo stato di salute, è possibile aggiungere all’articolo 610 Codice Penale anche il reato di Lesioni come conseguenza d’altro delitto (articolo 586 Codice Penale), poiché, ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo nel reato di cui all’articolo 586 del Codice Penale, è superflua un’indagine specifica sulla sussistenza, in concreto, di una colpa generica, essendo sufficiente l’indagine circa la condotta esecutiva del reato doloso e circa l’assenza, nel determinismo eziologico dell’evento non voluto, di fattori eccezionali, non imputabili all’agente e da costui non dominabili.