Jago dichiara: “Non deve essere; se rimane Cassio, egli ha una quotidiana
bellezza nella sua vita, che fa brutto me”.
La violenza di questa percezione finisce per suscitare nell’animo di Jago l’invidia più profonda. Accecato dall’odio egli non può far altro che bramare la distruzione di Cassio, quindi l’eliminazione del raffronto che lo vede perdente, suscitandogli una dolente ferita narcisistica.
La violenza di questa percezione finisce per suscitare nell’animo di Jago l’invidia più profonda. Accecato dall’odio egli non può far altro che bramare la distruzione di Cassio, quindi l’eliminazione del raffronto che lo vede perdente, suscitandogli una dolente ferita narcisistica.
Ancora Jago: “Lavora lavora mio veleno! Così si prendono in trappola
gli schiocchi ingenui, e proprio così donne oneste e virtuose, senza alcuna
colpa, vengono accusate”.
In questo passo è
evidente che la comunicazione malevola sarà l’arma con la quale Jago intende
portare a termine il suo piano; si servirà della comunità in cui Othello vive
per creare in lui una condizione di profondo malessere interiore, così che
persone per nulla perfide finiranno per divenire strumenti inconsapevoli di una
forma di violenza subdola quanto efficace.
William Shakespeare descrive la figura di Jago con
sorprendente realismo. Ancora oggi nelle aziende è possibile trovare
parallelismi, perché la spinta emotiva che innesca la violenza deriva dal fatto
che Jago si è rivoltato contro il suo superiore gerarchico perché scavalcato
mentre cercava di ottenere l’avanzamento di carriera che, più di altri,
riteneva di aver meritato.
Chiunque abbia lavorato per qualche tempo in un’Impresa o in un’Istituzione può ben comprendere perché Jago
diventa crudele. Sentirsi messi da parte può avere effetti terribili su un
narcisista perverso. E questo è oltremodo vero quando il funzionario si adopera
non per il bene dell’istituzione o per svolgere al meglio il suo compito
lavorativo, ma solo per raggiungere una condizione di “potere” così che gli
altri si inchinino davanti alla sua influenza.
Per queste persone la violenza è nell’animo. Nessuno deve osare frapporsi fra loro e la scalata al successo; nessuno deve osare rifiutare loro una collaborazione, una prestazione professionale, un appoggio, pena la vendetta.
Supponiamo che un alto
dirigente di una grande azienda debba scegliere di valorizzare uno solo dei
suoi venti collaboratori. Se il dirigente è motivato dall’interesse del bene
comune, ovvero della prosperità del gruppo lavorativo, allora inevitabilmente
sceglierà la persona con le qualità migliori. E così agisce Othello nel momento in cui preferisce il fiorentino Michele Cassio. Ma un
dirigente con una personalità psicopatica perversa non ragiona così. Lui non ha
a cuore il bene comune, ma solo l’affermazione personale a breve termine.
Quindi sceglierà la persona che potrà garantirgli al contempo: un valido
sostegno nella sua scellerata iniziativa, un’assenza di rischio nel valorizzare
qualcuno che potrebbe poi dimostrarsi anche troppo abile e preparato così da
metterlo in ombra, una ridotta possibilità di deludere un collaboratore
particolarmente aggressivo.
Il dirigente
psicopatico ragiona su questa linea: “Se
valorizzo il narcisista di turno che fa di tutto per mettersi in mostra ma che
lui stesso sa di non possedere quella professionalità e quelle qualità morali
che servirebbero all’Azienda, io ottengo la sua devozione. Al contempo il
collaboratore idealista che non verrà valorizzato continuerà ad impegnarsi allo
stesso modo, con la stessa intensità di prima, perché non lavora per affermare
se stesso ma per il bene dell’organizzazione. Diversamente il narcisista di
turno farà di tutto per vendicarsi ed ostacolare la mia ascesa, cercherà di annientare
il mio prestigio, e questo non deve accadere per nessuna ragione al mondo, anche
a costo di distruggere o smembrare il reparto o l’azienda stessa”.
Evidentemente
una qualche tutela per chi si ritrova Jago nel proprio ambiente di lavoro, è
necessaria. Quella che era stata indicata nell’articolo 18 dello Statuto dei
Lavoratori, una sua ragione di essere l’aveva.