sabato 9 giugno 2012

Il rapporto tra persecutore e la sua dolce compagna




Il rapporto che talvolta si instaura tra un persecutore psicologico e la persona vessata non deve trarre in inganno: anche se la vittima non ha piena consapevolezza del condizionamento subito e non è in grado di esprimere con precisione le proprie emozioni, la coercizione è rilevabile ad un’analisi più approfondita. Nonostante ciò molte donne non riescono a troncare con decisione un rapporto con un compagno prepotente o violento, lo vediamo purtroppo dalla cronaca, un poco alla volta si lasciano portare alla deriva senza riuscire ad interrompere la catena dell’abuso. 

Quando inizia la strategia perversa e la persona perseguitata incomincia a percepire che il rispetto reciproco, l’entusiasmo, il desiderio di sperimentare uno stile di vita più adatto alla propria identità, l’affetto non solo non sono esattamente quello che si attendeva dal proprio compagno, ma virano in un rapporto basato sul dominio, sull’imposizione autoritaria della propria volontà, sul discredito sistematico (“sei brutta …”; “non sei una buona madre …”; “proprio con una come te dovevo mettermi …”), il sogno va in frantumi ed una realtà inattesa si profila minacciosa. 

Le donne psicologicamente vessate reagiscono in modo da non difendere la loro dignità, l’autonomia, le qualità morali, l’autostima, non si allontanano e, per paura, accettano la situazione con il progressivo adattamento.

Non è certo facile restare razionali in una situazione di abuso psicologico perché le aggressioni sono soprattutto emotive. Una volta appurato che il fascino del proprio compagno era solo superficiale e nascondeva una personalità profondamente narcisistica, la capacità di analisi della persona vessata subisce un arresto. In una condizione di intensa incertezza e smarrimento l’iniziale vitale tentativo di ribellione ben presto si affievolisce, le energie psicofisiche si esauriscono, la vittima avverte l’incapacità di generare il benché minimo cambiamento e sperimenta la condizione di sentirsi emotivamente esausta. La perdita delle risorse emotive la espone alla violenza più tremenda, una violenza che cerca di analizzare per poterla percepire almeno con un margine di anticipo, ma che risulta sfuggente, difficile da inquadrare e da dimostrare. 

Poiché la condizione di stress non permette di utilizzare al meglio le proprie facoltà mentali, le donne vittime della violenza psicologica acuiscono il loro naturale intuito, diventano ipersensibili, fanno ricorso alla componente emotiva della loro intelligenza, leggono, si confidano con le amiche, si rivolgono ad uno specialista, si organizzano per raccogliere più informazioni possibili per comprendere come mantenere un minimo di equilibrio e cercare di prevenire gli sviluppi. 

Guardando dall’esterno è possibile individuare dei fattori comuni nelle situazioni che caratterizzano la violenza morale in famiglia: il progressivo isolamento ed una condizione di profonda svalutazione della vittima. 

L’isolamento è necessario perché l’aggressore deve privare la sua dolce compagna del supporto sociale, così che non possa contare della vicinanza emotiva di amici, sorelle, genitori. Quando una persona si ritrova a dover contrastare un’aggressione in solitudine è molto più difficile percepire quell’evento appunto come una vera aggressione, perché il dubbio di aver soggettivamente esagerato un episodio di poco conto arriva anche alle personalità forti e sicure delle proprie impressioni. E poi c’è sempre la tendenza delle persone coscienziose ad autocolpevolizzarsi e sentirsi quantomeno in parte responsabili. Con l’isolamento si crea dipendenza, e la dipendenza economica, ad esempio, è un altro fattore utile all’aggressore. Paradossalmente poi la vittima stessa nel tempo tende a nascondere la propria condizione isolandosi ed, inconsapevolmente, finisce così per agevolare la strategia aggressiva. 

La svalutazione avviene con una comunicazione violenta e può essere ricondotta sia alla denigrazione di quanto di buono la persona molestata ha realizzato, sia alla negazione sistematica di nuove opportunità che potrebbero fargli riguadagnare autostima. La vittima viene progressivamente confinata in una condizione di profondo avvilimento con accuse ed umiliazioni, ed a nulla serve cercare di non dare argomenti al persecutore perché, in assenza di punti di appiglio, nella comunicazione violenta le accuse vengono basate su opportune falsità.

In ogni caso l’elemento base su cui si fonda la strategia violenta è la paura, abilmente instillata nella mente della vittima perseguitata per paralizzare le sue possibili reazioni.