Nel Post “Mobbing e Codice Penale – Corrispondenza biunivoca scomoda a molti” ho descritto questa struttura della violenza:
- l’iniziale comportamento ambiguo, paradossale, abnorme, violento o minaccioso finalizzato a destabilizzare la vittima designata;
- il tentativo di assoggettamento indebito;
- la durata nel tempo di una condotta sempre più illegittima dell’aggressore quando esaminata unitariamente;
- la reiterazione delle azioni ostili inquadrabili come una forma di terrorismo psicologico (mobbing);
- l’esaurimento delle risorse e delle capacità di reazione dell’organismo della vittima designata dopo un tentativo di resistenza inefficace;
- un danno da rottura dell’equilibrio psicofisico ingiustamente provocato.
Per inciso “la reiterazione delle azioni ostili inquadrabili come una forma di terrorismo psicologico” è solo una fase della violenza perpetrata ai danni della persona offesa dal reato e, caratteristica peculiare dei terroristi, nei luoghi di lavoro come in una qualunque comunità sociale, è che sono coloro che si servono dei mezzi criminosi non tanto per soddisfare un interesse personale, ma per affermare la validità delle proprie convinzioni, e che siano politiche, sociologiche, religiose, morali non fa alcuna differenza.
In questo contesto, affermare le proprie convinzioni, significa dimostrare a se stessi che assumere un comportamento opportunista, non rispettare le limitazioni imposte dal legislatore, cercare di prevaricare gli altri al fine di valorizzare se stessi, manipolare, mantenere un basso profilo per evitare responsabilità, tenere nascoste le proprie iniziative illegittime, utilizzare la diffamazione ed il discredito pur di arrivare a denigrare un pericoloso rivale, tramare inganni, mentire, falsificare, omettere, accettare ingiunzioni illegittime da un potere esterno per creare vantaggi di tipo politico, … alla lunga sono la strategia di adattamento esistenziale migliore che poteva essere adottata.
Chi rispetta le Leggi, chi svolge la propria mansione bene ed onestamente, chi affronta le proprie responsabilità e non si tira indietro, chi svolge al meglio il proprio mandato istituzionale, per costoro, è solo uno stupido, uno che non ha capito niente dell’esistenza.
Chiamare questo terrorismo psicologico può sembrare eccessivo, ma non è così. Nella strategia terroristica, in generale, l’attore colpisce attraverso iniziative particolarmente violente creando, non tanto un danno tattico o logistico come Carl Von Clausewitz ha teorizzato per la battaglia campale, ma modificando in modo traumatico l’impressione che la società ha del nemico. Così, puntando a destabilizzare l’equilibrio emotivo dell’avversario, a minarne le sicurezze, ad isolarlo dalla comunità sociale, la violenza causa distorsioni cognitive in grado di produrre effetti sulla collettività intera.
Questa strategia è utilizzata anche negli ambienti di lavoro, perché il fine è analogo: eliminare un individuo o un gruppo scomodo, rafforzare la coesione del gruppo dominante, disintegrare l’unità morale del gruppo contrapposto, destabilizzare e far intravedere la distruzione per ottenere l’allontanamento volontario, creare panico, terrore.
Per essere efficace la strategia terroristica ha necessità di altre due componenti fondamentali: la comunicazione capillare del fatto violento e l’inerzia degli organi istituzionali così da far percepire una sostanziale sfiducia nella loro capacità di garantire l’incolumità del lavoratore. L’azione bellica ha la sua efficacia quando riesce a provocare reazioni emotive traumatiche e/o micro-traumatiche nella vittima designata.
Quando, nei luoghi di lavoro, accadono eventi riconducibili all’archetipo appena descritto, non è possibile parlare di conflittualità dovuta ad invidia o gelosia professionale. Perché queste sono strategie di guerra. Guerra non convenzionale, guerra psicologica, ma pur sempre guerra.