giovedì 21 novembre 2013

Le Ancore



Dall'eternità naviganti invisibili mi stanno portando attraverso atmosfere strane, solcando mari sconosciuti. Lo spazio profondo ha albergato i miei viaggi che non finiscono mai. La mia chiglia ha rotto la massa mobile di iceberg risplendenti che cercavano di coprire le rotte coi loro corpi polverosi. Dopo ho navigato per mari di bruma che estendevano le loro nebbie fra gli altri astri più chiari della terra. Dopo per mari bianchi, per mari rossi che tinsero il mio scafo coi loro colori e le loro brume. A volte abbiamo attraversato l'atmosfera pura, un'atmosfera densa e luminosa che inzuppò la mia velatura e la rese fulgida come il sole. A lungo ci fermavamo in paesi dominati dall'acqua o dal vento. E un giorno - sempre inatteso - i miei naviganti invisibili levavano le mie ancore e il vento gonfiava le mie vele folgoranti. Ed era di nuovo l'infinito senza vie, le atmosfere astrali aperte sulle pianure immensamente solitarie.

Giunsi alla terra, mi ancorarono in un mare, il più verde sotto un cielo azzurro che io non conoscevo. Abituate al bacio verde delle onde, le mie ancore riposano sulla sabbia d'oro del fondo del mare, giocando con la flora contorta della sua profondità, sostenendo le bianche sirene che nei giorni lunghi vengono a cavalcare su di esse.

I miei alti e diritti alberi maestri sono amici del sole e della luna e dell'aria amorosa che li penetra. Uccelli che mai hanno visto si fermano su di essi e poi in un volo di frecce segnano il cielo allontanandosi per sempre. Io ho cominciato ad amare questo cielo, questo mare. Ho cominciato ad amare questi uomini … Però un giorno, il più inatteso, giungeranno i miei naviganti invisibili. Leveranno le mie ancore ramificate nelle alghe dell'acqua profonda, riempiranno di vento le mie vele folgoranti …

E sarà di nuovo l'infinito senza vie, i mari rossi e bianchi che si estendono fra altri astri eternamente solitari …


Pablo Neruda (1904-1973) Poeta e scrittore cileno – dal libro Fiume invisibile, SugarCo Edizioni, 1981, traduzione di Savino D’Amico

I ragazzi al primo impiego



Questo post è dedicato ai ragazzi, coloro che, intorno ai venti anni affrontano le prime esperienze lavorative. 

Il lavoro è soprattutto un mezzo per poter acquisire denaro, ma non solo. Il denaro è necessario per il nostro sostentamento, per poter avere un’esistenza indipendente, per poter appagare anche ambizioni personali, gratificanti, emozionanti come un viaggio, una vacanza, acquistare un’automobile, per poter realizzare una famiglia. Ma il lavoro è anche un modo per esprimere la nostra personalità, per dimostrare che abbiamo la stoffa, che siamo capaci di organizzare, di fare cose utili anche per chi verrà dopo di noi.

Intorno ai venti anni i lavoratori hanno una caratteristica preziosa: la creatività. 

Quando si raggiungono i quaranta anni solo alcuni mantengono la capacità di innovare abbinata all’esperienza. 

Il datore di lavoro che intende assumere personale nella propria unità produttiva deve in primo luogo fare una scelta: un giovane lavoratore/lavoratrice oppure una persona con esperienza. Sono due modi totalmente diversi di investire nel futuro della propria azienda. Se come datore di lavoro ho necessità di personale che dovrò poi formare per fargli svolgere una mansione altamente specializzata, è pacifico che mi rivolgerò ad un giovane; la sua freschezza mentale, la sua dinamicità abbinata al desiderio di investire sul suo stesso futuro sono le qualità che sceglierò, perché sono consapevole che l’addestramento sarà compito mio e dei miei collaboratori. Al contrario, se ho necessità di un lavoratore in grado di gestire anche situazioni difficili, dotato di capacità professionali che possono essere il frutto solo di anni di esperienza diretta, al quale devo affidare anche il coordinamento di altre figure professionali, allora sceglierò una persona non più giovanissima e con un nutrito curriculum.

Non ha senso, quindi, richiedere anni di esperienza ai possibili candidati, quando poi ho necessità di personale che necessariamente devo formare per farlo operare con attrezzature che non hanno mai utilizzato, oppure secondo procedure che non si insegnano a scuola.

Quando vi è una marcata illogicità tra l’esperienza che viene richiesta, il curriculum formativo che viene preteso, e l’opportunità lavorativa che viene eventualmente offerta, è bene fare molta attenzione ad un possibile tentativo di manipolazione. In altre parole è necessario non abbassare le difese psicologiche perché qualcuno potrebbe approfittare della poca esperienza per costringerci a fare cose nascondendoci la realtà oggettiva, esponendoci al pericolo o forzando la nostra percezione di rispetto per il prossimo. La fragilità di chi è in cerca di un primo impiego non deve essere un facile appiglio per individui senza scrupoli.

Un altro motivo perché vengono richiesti curriculum esorbitanti è la chiara volontà di far sentire non adeguati gli eventuali candidati. Ti chiedo la perfetta conoscenza di inglese, francese e tedesco, oltre a saper utilizzare tutta una serie di applicazioni informatiche, solo perché quando ti presenterai potrò fare l’espressione delusa e farti accettare una sostanziale dequalificazione rispetto alla tua preparazione, al tuo titolo di studio.

Mio personale parere è che, tranne situazioni mortificanti o pericolose, un lavoro vada comunque accettato quando si è molto giovani. Con quel denaro investo sul mio futuro. E trovare un lavoro, quando si ha già un lavoro, è molto più facile.

mercoledì 20 novembre 2013

Il silenzio è comunque un modo per comunicare




Premetto che questa storiella è completamente inventata.

Duemila avanti Cristo. Siamo nell’accampamento degli Achei, oltre la pianura. Una gruppo di eroi troiani, dopo aver tentato di sfruttare la notte chiara con un’incursione finalizzata ad incendiare le navi nemiche, sono stati catturati dagli uomini di Agamennone. 

Ulisse propone di salvare loro la vita ad una condizione: risolvere l’enigma che verrà proposto a due di loro in modo da dimostrare il valore dell’avversario con cui stanno combattendo e poi narrare la vicenda al ritorno in patria, a guerra finita.

I due troiani vengono così portati al centro dell’accampamento, vengono legate loro le mani dietro la schiena e distanziati di circa trenta metri. Gli viene proibito di comunicare tra di loro. Un eroe Acheo spiega che verranno distribuite loro delle piccole pietre colorate, nel contenitore che non possono vedere ci sono 6 pietre bianche ed 8 pietre nere. Verranno suddivise e distribuite nelle loro mani tutte le pietre ma di un unico colore; quindi o tutte e solo le 6 pietre bianche, oppure tutte e solo le 8 pietre nere. In questo modo ognuno dei due potrà contare il numero delle pietre che avrà ricevuto ma non ne potrà vedere il colore; in altre parole non potrà sapere se sono state distribuite quelle nere o quelle bianche. 

La prova per i due troiani consiste nell’individuare il numero esatto di pietre consegnate all’altro.

Così viene fatto e, dopo poco, Agamennone domanda per la prima volta: “Uno di voi due è in grado di dire il numero di pietre che sono state assegnate all’altro?”, ma entrambi restano in silenzio.

Dopo quattro domande identiche Agamennone non ottiene responso ma, alla quinta domanda, entrambi gli eroi troiani rispondono che sono in grado di affermare con certezza il numero delle pietre distribuite all’altro.

Indipendentemente dall’effettivo quantitativo e dalle modalità di come ci sono riusciti, per risolvere questo enigma al lettore è richiesto descrivere perché proprio alla quinta domanda di Agamennone entrambi i prigionieri sono in grado di svelare il numero delle pietre rispettivamente distribuite all’altro. 

Come ogni problema istruttivo, non è tanto importante arrivare alla soluzione, ma affrontare l’enigma con il ragionamento per superare le difficoltà. Il silenzio è realmente un modo per comunicare.

venerdì 15 novembre 2013

Il prepotente agisce per il suo pubblico





Durante la guerra, una delle prime cose che è necessario fare è individuare chi realmente comanda il nemico. 

Ci sono delle personalità che, per la loro stessa natura, tendono ad operare al di fuori delle regole di civile convivenza. Se possibile è necessario studiare ed analizzare il loro comportamento, perché tutto ciò ci potrebbe permettere di comprendere chi tira realmente i fili della vicenda. 

Una ulteriore personalità da tenere sotto controllo è quella del Prepotente.

Ambiente di lavoro di fantasia. Ad esempio un’azienda metalmeccanica di medie dimensioni. Il datore di lavoro si accorge che la sua società ha evidenti carenze di tipo organizzativo. 
La materia prima che arriva in magazzino è di ottima qualità ed anche i costi di approvvigionamento non sono eccessivi. Il processo di lavorazione è fatto da personale esperto e formato, che utilizza attrezzature di lavoro all’avanguardia, in uno stabilimento veramente confortevole. Il prodotto finito rientra perfettamente nelle specifiche di progetto e non è eccessivamente costoso. 

In tutto questo però pesa fortemente una marcata conflittualità interpersonale che si è sempre di più evidenziata negli anni, man mano che la società conquistava quote di mercato.

Tra il reparto produzione e gli uffici amministrativi praticamente non si parlano. I rispettivi dirigenti sono costantemente occupati a cercare di accaparrarsi i meriti e trovare colpevoli per gli errori commessi. Gli operai, chi più chi meno, la mattina varcano mal volentieri il cancello della fabbrica, e tra le linee di produzione serpeggia un generale malcontento. Ci sono stati anche tanti piccoli episodi che hanno prodotto incidenti sul lavoro; solo qualche giorno di assenza, nulla di grave, ma accadimenti che denotano strane distrazioni, inspiegabili negligenze che vengono considerate eventi sentinella.

Il datore di lavoro così, di fronte alla possibilità di veder crollare quanto faticosamente realizzato, decide di rivolgersi ad un consulente esterno. Si tratta di far riconsiderare l’intera organizzazione del lavoro, con l’evidenziazione dei pericoli presenti in azienda, i possibili rischi conseguenti, in funzione della probabilità dell’infortunio e della gravità delle lesioni, nonché indicare le eventuali criticità dovute all’abuso del ruolo delle figure dirigenziali.

Sei mesi dopo, il consulente presenta la sua relazione. Il vero problema che impedisce una ottimale organizzazione del lavoro è la presenza di personalità prepotenti che hanno raggiunto i ruoli dirigenziali più delicati. 

Per capire innanzi tutto chi è il dirigente prepotente è necessario precisare che la sua essenza non deriva dalla volontà di comandare, di imporre la propria volontà nei confronti dei subordinati, di mortificarli, umiliarli, traendo piacere dal sentirli in propria balia, al punto da toglierli la dignità. In realtà il dirigente prepotente non opera nell’interesse dell’azienda, ma per dare spettacolo al suo pubblico, che può essere composto dall’insieme dei fornitori, dal personale del consiglio di amministrazione, da altre figure esterne alla realtà produttiva.

L'essenza della figura dirigenziale prepotente è l'ostentazione della propria superiorità rispetto a tutte le regole della comunità sociale, di civile convivenza in una realtà lavorativa, di rapporti anche regolati dal diritto, da contratti di lavoro, da Leggi dello Stato. In sostanza il dirigente prepotente opera continuamente per esibire marcatamente, ostentare il proprio arbitrio. E la sua prova di potere sarà tanto più efficace quanto più risulterà agli occhi del suo pubblico in opposizione con i valori riconosciuti.

Che cosa dovrebbe fare il datore di lavoro di fronte ad una simile realtà? 

Valorizzare le persone realmente capaci e mettere i prepotenti nelle condizioni di non nuocere. Nell’interesse di tutti.

lunedì 4 novembre 2013

Solo una tecnica basata sulla dialettica


Pur avendo provato in modo razionale le nostre buone ragioni, spesso nelle aule di giustizia ci troviamo in difficoltà a dimostrare la nostra tesi in modo emotivamente convincente.

Come tecnica puramente dialettica è fatto notorio che, l’isolare la descrizione di un evento dal contesto nel quale è realmente avvenuto e dalla rete di rimandi documentali all’interno dei quali questo è inserito, permette alla controparte di negare qualunque avvenimento, finanche l’evidenza.

Se poi, al fine di comprovare che la persona che sostiene di aver subito la violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, psichiche e morali, non è un soggetto attendibile:
  • si provvede fin da subito a non accettare il quadro di riferimento proposto e ad avanzare ambiguamente dubbi sulle sue reali condizioni di salute psicofisica, disconoscendo la validità della patologia diagnosticata, anche quando questa è provata in modo innegabile;
  • si provvede, in modo velato ma costante, ad avanzare continuamente dubbi sulle sue precedenti condizioni di salute psicofisica e sulle capacità di inserirsi affabilmente in contesti lavorativi già strutturati, nonché sulla capacità di realizzare rapporti umani e professionali amichevoli;
  • si provvede a dissimulare sistematicamente le dinamiche di potere realizzate dalla personalità psicopatica che ha dolosamente esercitato la violenza, non evidenziando di proposito le azioni e gli atteggiamenti ove egli manifesta un senso grandioso di importanza, la sensazione che tutto gli sia dovuto, cioè la irragionevole aspettativa di trattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative, il prendersi il merito del lavoro e dell’impegno degli altri, scaricando la colpa dei propri errori, un operare sistematicamente lo sfruttamento interpersonale, cioè un usare gli altri per raggiungere i propri scopi, un mirare al potere per soddisfare interessi difficilmente riconducibili alla realizzazione degli scopi dell’organizzazione, così da dare spazio, sfruttando le risorse degli altri, ai propri obiettivi senza tener conto delle legittime prospettive altrui, invece di delegare, il gestire tutto nei minimi dettagli prendendo il sopravvento ed imponendo il suo personale sistema di valori e la sua personale visione del mondo, restando insensibile al costo che tutto questo comporta emotivamente per gli altri;
  • si provvede a realizzare una ricerca ossessiva di qualunque, anche minima, imprecisione nelle esposizioni raccolte dalla persona offesa, per poi, prendendo spunto da ogni minimo “errore” commesso dall’esaminato nel corso dei suoi racconti opportunamente indotti in modo ripetitivo, proporre immediatamente la conclusione che, se il soggetto ha errato su un dettaglio, nulla garantisce che non abbia mal riferito anche su tutto il resto, così da dissimulare l’evidente sproporzione tra l’entità dell’eventuale inesattezza individuata e le conclusioni che, partendo da essa, sono state tratte;
  • si provvede a raccogliere informazioni sugli eventi riportati dal soggetto vittima della violenza, prevalentemente però da persone favorevolmente disposte nei confronti di chi, la violenza, l’ha dolosamente esercitata, oppure da individui in qualche modo condizionati, influenzati dalle circostanze e preoccupati per le possibili conseguenze future che eventuali dichiarazioni inopportune potrebbero cagionare;
  • si provvede ad amplificare ad ogni opportunità le affermazioni sincere della persona offesa, in modo da esagerare gli eventi rendendoli così ancora meno credibili, poiché gli eventi che una personalità psicopatica perversa è in grado di realizzare per raggiungere una posizione di leadership sono illimitatamente illogici, irrazionali, quindi per loro stessa sostanza poco credibili;
  • si provvede a non manifestare assolutamente che la personalità psicopatica perversa nelle vicende narrate e nella documentazione presentata dalla persona offesa, rifiuta le critiche o, comunque, reagisce ad esse con rabbia, anche quando sono realistiche, incolpa gli altri e non sa ammettere errori o debolezze personali, si mostra sostanzialmente incapace di introspezione psicologica e di apprendere dall’esperienza emozionale e sociale, trae piacere da comportamenti, atteggiamenti ed emozioni che non sono piacevoli per la maggior parte delle persone, e da comportamenti dannosi agli altri (comprendenti danni fisici, violenze, danni morali, impedimenti di ogni tipo al benessere altrui, ed inoltre alcune forme di crudeltà diretta o indiretta come le calunnie e le dicerie malvagie);
  • si provvede, al contrario, ad avanzare continuamente dubbi sull’effettiva ostilità dei fatti accaduti, fatti che tipicamente per loro natura si prestano ambiguamente, per conveniente scelta di chi esercita la violenza, a poter anche essere interpretati in modo neutro o, addirittura, benevolo;
  • si provvede ad avanzare continuamente dubbi in merito ai motivi che hanno indotto la persona offesa a richiedere giustizia;
  • si provvede ad enunciare eminenti citazioni giurisprudenziali ed autorevoli indicazioni bibliografiche, tutte opportunamente orientate nella medesima direzione, ed antitetiche rispetto alle asserzioni innegabili che la persona offesa ha proposto in quanto obbligata, contro la sua stessa volontà, a dover sostenere una tesi oggettivamente difficile da illustrare;
se si ha successo almeno in parte in queste arti comunicative, si riesce a raggiungere un primo, determinante obiettivo: l'indebolimento del consenso del Magistrato che abbia già esaminato la tesi accusatoria quando questa riguarda una violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, psichiche e morali, realizzata per motivi di lavoro.

Così, una volta insinuato il seme del dubbio, circa la realtà dei fatti narrati da chi ha subito tale violenza, si può proporre, con professionale neutralità, una sostanzialmente diversa chiave di lettura in grado di sostituire il paradigma e dissolvere tutti i dubbi e le incertezze ingannevolmente concretizzate. In alternativa, all’occorrenza, si può anche ripiegare su una generica motivazione che evidenzi che le prove complessivamente acquisite, alla luce di quanto ricostruito, non consentono di trarre conclusioni certe.

E’ altamente probabile che il Magistrato, di fatto sorpreso quanto disorientato, finirà per rifiutare inconsciamente le dinamiche di potere descritte dalla persona offesa, per convincersi della irrealtà della tesi accusatoria. Pertanto lo si indurrà ad accettare quanto ad arte rimodellato e, convinto suo malgrado dell’inutilità dell’azione penale, egli firmerà l’atto di rigetto voluto.

domenica 3 novembre 2013

Quando sopportiamo la sofferenza



Quand’è che diamo il meglio di noi stessi? Quando sopportiamo la sofferenza, il disagio, la solitudine, le aggressioni delle persone prevaricatrici, l’arroganza diffusa? 

Quand’è che le ferite della persona che credevamo ci amasse smettono di farci male? Quando ci capita di fare cose che non credevamo di essere in grado nemmeno di affrontare?

Quando abbiamo un sogno. Quando portiamo avanti i nostri valori per vederli affermare, il nostro ideale.

La speranza ci porta a non dare peso alle difficoltà. Ci porta fuori della realtà quotidiana fatta da piccole e grandi ingiustizie, dallo squallore che ci hanno organizzato contro. 

Immaginate la differenza che c’è tra l’essere un uomo o una donna. Una donna può generare una vita. Far crescere i propri figli nel migliore dei modi è già un obiettivo da riempire completamente venti anni della propria esistenza. Per un uomo questo è più sfumato. 

Ci sono persone poi che hanno dedicato la loro vita al Teatro, che hanno scritto brani musicali indimenticabili, che hanno fatto della ricerca il loro pane quotidiano, che hanno portato l’assistenza medica o l’istruzione dove non c’era nulla. Queste persone erano e sono ripagate dal fatto di poter operare con passione in qualcosa in cui credevano e credono ancora, di poter esprimere liberamente la loro creatività. 

Hanno sopportato la sofferenza? Certo che lo hanno fatto. Ma non lo hanno sbandierato. Hanno vissuto con dignità anche i momenti più terribili, senza dare spettacolo. 

A mio modo di vedere queste persone non hanno mai ambito al denaro. Ed avrebbero operato allo stesso modo, sia in tempi di crisi, sia di prosperità economica. Sono queste le persone che hanno costruito e ricostruito questo nostro Paese, non coloro che vanno in cerca dei mezzi di comunicazione di massa per poter rilasciare dichiarazioni ed ottenere una visibilità solo fine a se stessa.

sabato 2 novembre 2013

Lavoratore non più idoneo




L'inidoneità del lavoratore a svolgere determinate mansioni non abilita il datore di lavoro a licenziare, ma solo ad utilizzare il dipendente in mansioni compatibili con le residue capacità e in tale caso grava sull'imprenditore l'onere di dimostrare l'impossibilità di un'altra attività riconducibile alle mansioni assegnate o ad altre equivalenti.

Neppure il consenso delle parti ha rilevanza ai fini della deroga al principio, atteso che l'articolo 2103 Codice Civile, che tutela la professionalità del prestatore di lavoro, nonché il diritto a prestare l'attività lavorativa per la quale si è stati assunti, o si è successivamente svolta, vietandone l'adibizione a mansioni inferiori, che è norma imperativa e quindi non derogabile nemmeno tra le parti, come sancisce l'ultimo comma della stessa, prevedendo che "ogni patto contrario è nullo" (Suprema Corte di Cassazione, Sezione Civile, Sentenza n. 1471 del 22.01.2013).