sabato 30 gennaio 2021

Parità di condizioni dignitosa per i lavoratori



Quasi del tutto sconosciuti ai non addetti ai lavori, nel nostro Ordinamento sono presenti il Decreto Legislativo n. 215 del 09.07.2003 - Attuazione della Direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, ed il Decreto Legislativo n. 216 del 09.07.2003 - Attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Il Decreto Legislativo n. 216 del 09.07.2003 in particolare, reca disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro; ma non riporta la definizione di handicap.

La Repubblica Italiana è stata condannata per non avere giustamente recepito nell’Ordinamento interno la Direttiva 2000/78/CE del Consiglio (Causa C-312/11 Commissione contro Repubblica Italiana) ed in particolare per non avere recepito correttamente e completamente l’articolo 5 che disciplina l’obbligo per i datori di lavoro di adottare soluzioni ragionevoli per le persone con disabilità. La difesa italiana ha sostenuto la seguente tesi: “non vi è nulla nel testo della Direttiva 2000/78/CE che giustifichi la posizione della Commissione secondo cui l’unica modalità accettabile ed idonea a dare applicazione all’articolo 5 di tale direttiva sarebbe l’imposizione di obblighi a carico dei datori di lavoro nei confronti di tutti i lavoratori disabili, e non quella consistente nell’organizzare un sistema pubblico e privato atto ad affiancare il datore di lavoro e il disabile”. In sostanza, la posizione dello Stato è stata che, l’attuazione della regola, può avvenire anche mediante la predisposizione di un sistema di promozione dell’integrazione lavorativa delle persone con disabilità, fondato su un insieme di incentivi, agevolazioni, misure e iniziative a carico delle autorità pubbliche e, in parte, su obblighi imposti ai datori di lavoro. Un sistema che, nel nostro Paese, sarebbe il risultato del Collocamento mirato, delle Cooperative Sociali, della Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone con disabilità, e delle Leggi speciali in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

Questa interpretazione non è stata condivisa dalla IV Sezione della Corte di Giustizia Europea, secondo la quale, al contrario, l’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE, introduce comunque un sistema di obblighi a carico dei datori di lavoro, che non possono essere sostituiti da incentivi e aiuti forniti dalle autorità pubbliche.

Alla luce di queste considerazioni la Corte in data 04.07.2013 ha ritenuto che, contrariamente agli argomenti sostenuti dalla Repubblica Italiana, per trasporre correttamente e completamente l’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE non fosse sufficiente disporre misure pubbliche di incentivo e di sostegno, essendo invece compito degli Stati imporre a tutti i datori di lavoro a livello nazionale l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo in sicurezza, di avere una promozione o di ricevere una formazione.

Per cui, con la Legge n. 99 del 09.08.2013, è stata recepita anche nel nostro Ordinamento una considerevole disposizione a tutela delle persone con disabilità: l’obbligo, per tutti i datori di lavoro, di adottare accomodamenti ragionevoli per garantire quella parità di condizioni dignitosa per i lavoratori.

In particolare l’art. 3, comma 3-bis, del Decreto Legislativo n. 216 del 09.07.2003 attualmente dispone: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della Legge 3 marzo 2009, n. 18 nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”.

La Corte ha definito l’ambito di applicazione del principio dell’accomodamento ragionevole che, al di là di quanto le normative specifiche in tema di promozione dell’occupazione possano prevedere, si estende a tutti i datori di lavoro, a tutte le persone con disabilità nell’accezione fatta propria dalla Corte Europea, ed ai diversi profili dell’occupazione, comprendendo anche l’accesso, la formazione, la tutela della incolumità e la progressione di carriera. Quindi, per l’effetto stesso del richiamo della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, il rifiuto dell’accomodamento ragionevole costituisce fattispecie discriminatoria. La negazione di soluzioni ragionevoli, anche solo organizzative, è qualificata come discriminazione, analogamente a quanto avvenuto con la Direttiva 2000/43/CE con riferimento alla nozione di molestie.

E poi, la Corte di Giustizia Europea con la Sentenza dell’11.04.2013 nelle cause riunite C-335/11 e C-337/11, ha sancito “La nozione di «handicap» di cui alla Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27.11.2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica, causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata”.

Il concetto di inabilità così argomentato, risulta essere più ampio di quello contenuto nelle diverse disposizioni previste dal nostro Ordinamento, e si estende anche alle difficoltà dovute alla condizione di chi ha subito una successione di micro traumi psicologici, agli ipersensibili, all’avanzare dell’età.

Nella stessa Sentenza dell’11.04.2013 della II Sezione, è testualmente riportato: “Con la sua terza questione il Giudice del rinvio chiede sostanzialmente se l’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE debba essere interpretato nel senso che la riduzione dell’orario di lavoro può configurare uno dei provvedimenti di adattamento contemplati da tale articolo. […] il datore di lavoro è tenuto a prendere i provvedimenti appropriati, segnatamente, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione. A tale riguardo il considerando 20 di detta direttiva procede ad un elenco non tassativo di siffatti provvedimenti, i quali possono essere di ordine fisico, organizzativo e/o formativo. Si deve rilevare che né l’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE né il considerando 20 menzionano la riduzione dell’orario di lavoro. Occorre tuttavia interpretare la nozione di «ritmi di lavoro», che compare in detto considerando, per determinare se l’adattamento dell’orario di lavoro possa essere fatto rientrare in tale nozione.

La […] e la […] fanno valere in proposito che la nozione di cui trattasi riguarda elementi quali l’organizzazione del ritmo e della velocità del lavoro, ad esempio nell’ambito di un processo produttivo, nonché le pause, in modo da alleviare per quanto possibile il carico del lavoratore disabile. Tuttavia, né dal considerando 20 né da altre disposizioni della Direttiva 2000/78/CE si evince che il legislatore dell’Unione abbia inteso circoscrivere la nozione di «ritmi di lavoro» a siffatti elementi ed escluderne l’adattamento degli orari, in particolare la possibilità, per le persone disabili che non sono o non sono più in grado di lavorare a tempo pieno, di svolgere il proprio lavoro a tempo parziale.

Conformemente all’articolo 2, quarto comma, della Convenzione dell’ONU, gli «accomodamenti ragionevoli» sono «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali». Ne consegue che detto articolo contempla un’ampia definizione della nozione di «accomodamento ragionevole». Pertanto, […] deve essere inteso nel senso che si riferisce all’eliminazione delle barriere di diversa natura che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione delle persone disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” (Cfr. Corte di Giustizia Europea, II Sezione, Sentenza dell’11.04.2013).