domenica 29 settembre 2013

Lettera agli psicopatici perversi


Se hai una personalità marcatamente narcisistica, ovvero hai una Personalità Borderline, una Personalità Antisociale, una Personalità Psicopatica oppure una Personalità Paranoide, questo Blog tematico non fa per te.

Non è una colpa avere un disturbo di personalità. Non critico o mi permetto di giudicare la persona. Ognuno di noi è "perfetto ed unico" così com'è. Però non condivido le azioni socialmente dannose che, tipicamente, i narcisisti estremi compiono, talvolta inconsapevolmente.

Il contenuto del Blog è interamente rivolto alle persone che, ogni giorno, combattono perché si affermi il Diritto, e non la legge del più forte; alle persone che svolgono con passione il proprio lavoro, qualunque esso sia. Per cui i parassiti e gli arrampicatori sociali non troveranno argomenti a loro congeniali. 

Gli argomenti trattati mostrano una realtà molto diversa da quella che ci viene continuamente rappresentata con i mezzi di informazione di massa. Per un insieme complesso di motivi gli argomenti illustrati, spesso, sono controintuitivi, ovvero sembrano non trovare una conferma diretta con le convinzioni che abbiamo tratto nel tempo, vivendo la nostra esistenza. Non pretendo di avere la verità assoluta, ovviamente; sono solo una persona che ha deciso di mettere in forma scritta e divulgare le proprie personali convinzioni. Mi accontento quindi di mostrare la realtà dei luoghi di lavoro da una prospettiva diversa, insolita, ... purtroppo talvolta drammatica. 

Nel nostro Paese si stima che le vittime di violenza psicologica perpetrata nei luoghi di lavoro siano dalle 800.000 al 1.000.000. In Svezia almeno il 4% dei suicidi è riconducibile a questa forma di violenza ancora nascosta.

Se riuscissi a rasserenare o far riflettere e dare forza anche ad una sola vittima della violenza psicologica perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, mi riterrei ampiamente soddisfatto e potrei dichiarare "missione compiuta".

Non c'è vergogna ...


Non c'è vergogna nel cadere, ... semmai nel non provare a rialzarsi.

A chiunque può capitare di rimanere vittima della violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, psichiche e morali. Può accadere al lavoro, ma anche in famiglia o nel circolo politico. L'imperativo è reagire!


mercoledì 25 settembre 2013

Mediatori criminali nei luoghi di lavoro





Una volta realizzato che siamo in guerra, una delle prime cose che è necessario fare è individuare chi realmente comanda il nemico.

Non è affatto semplice perché nella violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, psichiche e morali, il burattinaio si nasconde e lascia che agiscano altri. Quindi il nostro collega di lavoro che opera nell’ufficio accanto e che ci contraddice ogni volta che facciamo un’affermazione, potrebbe benissimo essere la persona che più ci irrita, ma anche uno strumento in mano ad altri. Lo stesso principio vale se lavoriamo in un istituto di credito, in un cantiere, in una scuola, in un laboratorio, in una mensa, in una fattoria per la coltivazione, in un ente territoriale della pubblica amministrazione.

Ci sono delle personalità che, per la loro stessa natura, tendono ad operare al di fuori delle regole di civile convivenza. Se possibile è necessario studiare ed analizzare il loro comportamento, perché tutto ciò ci potrebbe permettere di comprendere chi tira realmente i fili della vicenda.

Una di queste personalità da tenere sotto controllo possiamo chiamarla il “Mediatore criminale”.

Il Mediatore criminale sceglie liberamente di operare al di fuori delle regole di civile convivenza. Ne è perfettamente consapevole. Agisce tipicamente per ottenere il massimo vantaggio personale in ogni transazione in cui riesce ad inserirsi. Un comportamento raziocinante finalizzato ad operare interventi di mediazione con la logica del “Io vinco – Tu perdi”, con benefici soprattutto economici che oltrepassano ampiamente le sanzioni cui potrebbe andare eventualmente incontro quando scoperto.

Questo soggetto riesce ad inserirsi in punti vitali delle organizzazioni ed attiva le sue trame portando sulla cattiva strada un numero limitato di figure compiacenti. Infatti, per riuscire nel suo intento, ha necessità che il mandato istituzionale, l’attività professionale, il flusso produttivo si svolgano con apparente regolarità. Lui devia a suo favore una parte delle risorse, quella parte che, in ogni caso, consenta l’apparente svolgimento del lavoro nel suo complesso.

Supponiamo che, ad esempio, in una struttura ospedaliera un reparto abbia necessità di avere un finanziamento di trecentomila euro l’anno per produrre mille prestazioni. Il Mediatore criminale lo porterà gradualmente a rinunciare ad una significativa quota di denaro, quella quota tale da ridurre le prestazioni del solo cinque percento spremendo, contemporaneamente, i propri collaboratori con turni di lavoro impossibili, non sottoponendo regolarmente alla manutenzione le macchine ed altre abnormità simili. Le risorse che lui sfrutta per valorizzare se stesso devono essere sempre a carico di altri.

Ovviamente questa moderna figura di parassita sociale può comportarsi in questo modo se altri soggetti glielo permettono, per questo tende a realizzare alleanze occulte con chi può favorirlo.

Il comportamento del Mediatore criminale è sempre caratterizzato da un esagerato narcisismo.

Alla base delle sue prerogative per le quali viene generalmente scelto, c’è una straordinaria capacità nell’utilizzare la comunicazione per manipolare, sedurre, affascinare i suoi interlocutori. Un esperto in relazioni umane, in realtà non autentiche, capace di assoggettare gli altri con la seduzione professionale o con la paura di una ritorsione. In estrema sintesi questa è la sua unica caratteristica peculiare che può spendere nel mercato del lavoro.

L’attività che viene affidata in genere al Mediatore criminale è quella di manager, di dirigente di una qualche struttura, di un qualche reparto. Questo suo ruolo gli permette di individuare le esigenze inconfessate, i sogni, i desideri, le aspettative dei componenti del gruppo lavorativo, per poi interpretarli, selezionarli, renderli concretamente realizzabili con provvedimenti o decisioni, in modo da generare, al contempo, riconoscenza e timore reverenziale.

Questo soggetto deve essere fornito di capacità per operare tranquillamente in condizioni di illegalità, deve saper convivere con le minacce di sanzioni, deve saper ammantare di apparente legalità le sue malefatte, deve sapersi proteggere e possedere un’ampia conoscenza di persone disponibili a partecipare, coprire, realizzare illeciti. Le capacità per operare tranquillamente in condizioni di illegalità sono apprezzate in modo direttamente proporzionale al numero dei soggetti che, di fatto, partecipano all’illecito.

E’ possibile suddividere queste figure in due grandi insiemi: i Mediatori criminali nascosti ed i Mediatori criminali palesi.

I Mediatori criminali nascosti sono i soggetti che, pur non partecipando direttamente alla vita professionale, sociale o politica, quindi non entrando direttamente nelle transazioni, svolgono comunque efficacemente la loro tipica attività. Condizionano grandemente i contesti lavorativi. Sono quei funzionari che, pur ricoprendo un ruolo specifico ad esempio nelle Università degli Studi, negli Uffici giudiziari, nelle Strutture socio-sanitarie, dedicano in realtà la maggior parte delle loro energie a tutt’altra cosa, in modo assolutamente non evidente.

I Mediatori criminali palesi sono i soggetti che partecipano direttamente alla vita professionale, sociale e politica, condizionandola significativamente.

I soggetti in questione devono avere la capacità di allacciare reti di relazioni, legami di fiducia forti, di indurre reciproci favori, di stabilire obblighi morali, di riconoscere nelle persone soprattutto le motivazioni più recondite, i desideri più nascosti, così da renderli deboli e poter operare la manipolazione subdola. Queste personalità tendono più facilmente di altri ad utilizzare la violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, psichiche e morali.


sabato 21 settembre 2013

Nati sumus ad congregationem hominus et ad societatem comunitatem que generis humani



Noi, uomini e donne, siamo nati con l’istinto dell’unione, dell’associazione e delle comunanza propri del genere umano

Il dirigere, il realizzare la propria visione organizzativa, il creare dei sistemi e condurre dei collaboratori alla concretizzazione di un ideale, tutte queste attività necessariamente richiedono che un leader possieda un certo livello di coscienza del potere che gli è necessario e di come è possibile farne buon uso. 

Chi è alla ricerca esclusiva del potere da inizio ad un processo perverso. Il narcisista estremo in realtà, attraverso un processo tipicamente seduttivo, riesce a circondarsi di persone deboli, compiacenti, assoggettate. Se queste personalità accondiscendenti si sottomettono perché non hanno una motivazione forte per agire diversamente, è anche vero che altri approfittano della situazione per trarre vantaggi personali. Per contro, chi rifiuta l’assoggettamento indebito viene bollato in negativo come persona priva di adeguate capacità intellettive, come figura rigida, problematica. 

Chi utilizza la strategia delle sistematiche vessazioni, psichiche e morali, è convinto che l’altro meriti le ostilità. La vittima diviene così il capro espiatorio, il soggetto a cui addossare tutte le colpe. 

Le relazioni individuali subiscono una doppia mutazione, alcune si rafforzano, altre si disgregano rapidamente, così l’ambiente si orienta alla paura, all’egoismo, alla conquista individuale, alla difesa del territorio e dei benefici acquisiti. Nei confronti del conflitto si tende a restarne fuori, ognuno pensa a se stesso. Tutti temono che essere solidali con chi subisce la violenza possa poi rivelarsi penalizzante, perché l’aggressore li vedrebbe come figure ostili, personaggi nemici, traditori identificati con gli stessi ideali della vittima. 

Il dirigente che opera tutto questo distrugge il morale dei propri collaboratori ma, spesso, questo suo modo di fare viene addirittura apprezzato

La comunanza propria del genere umano, il senso di appartenenza ad un gruppo solidale, ad una istituzione, vengono eliminate, come fossero un fattore negativo alla crescita della comunità sociale.

venerdì 20 settembre 2013

Si vis pacem para bellum




Certi ambienti di lavoro sono caratterizzati da potenti dinamiche di potere distruttive che si sono affermate nel tempo. Questo si verifica in particolare nei luoghi di lavoro della pubblica amministrazione in generale, della sanità, delle banche, degli istituti di insegnamento. Le dinamiche di potere conducono inevitabilmente a relazioni conflittuali perché portano con loro, nascosta, la volontà di acquisire potere, prestigio sociale, denaro ed onorificenze. 


Per alcune persone il potere, inteso nel senso più ampio del termine, è il fine ultimo del loro vivere. Tutto deve inevitabilmente ruotare intorno a loro; tutto deve inevitabilmente dipendere da una loro decisione (autoritario). 
Per altre persone il potere è invece un mezzo, lo strumento che permette la realizzazione di un’innovazione, di una conquista scientifica, di una divulgazione letteraria o matematica (autorevole). 


Quando si instaura una lotta per il potere in un determinato contesto lavorativo non è facile comprendere da che parte stanno i contendenti. Idealmente le posizioni possibili sono tre: autoritario contro autoritario; autorevole contro autorevole, oppure autorevole contro autoritario.
Le prime due posizioni conflittuali non suscitano grande interesse. Lo scontro per arrivare alla stanza dei bottoni portato avanti tra due personalità autoritarie è una lotta sterile, chiunque vincerà si trasformerà ben presto in despota, in tiranno, realizzerà il suo regno, per cui non vale la pena approfondire. Al pari il conflitto tra due persone autorevoli è tanto raro quanto incruento. Invece la guerra per il potere tra una personalità autoritaria ed una autorevole è quella che più di frequente ci ritroviamo davanti agli occhi, quella che andrebbe indirizzata a favore di chi, il potere, lo vede come un mezzo per trasformare le opportunità in realtà concrete ed utili alla collettività.


In genere le personalità narcisistiche tendono a nascondere il loro desiderio di potere, ma utilizzano la manipolazione subdola che talvolta sconfina nella perversione. Questi soggetti tendono ad aspettare che la loro vittima abbassi le difese psicologiche per poi saltare alla loro giugulare, sfruttando la sorpresa. In molti casi le vittime sono le persone più efficienti, preparate, creative, altruiste o produttive. La violenza vene inizialmente propagata in modo nascosto. Può essere diretta o indiretta. Si tratta di una comunicazione sempre contrastante, aggressiva, paradossale, denigratoria, finalizzata a destabilizzare la vittima. Gli obiettivi dell’aggressore non vengono mai resi espliciti, per questo chi subisce non riconosce in questa fase l’imboscata in atto.

In una struttura produttiva o amministrativa mal organizzata la dirigenza, rifiutando di tenere in considerazione le esigenze umane e sottraendosi alle responsabilità di tipo gestionale, finisce per amministrare i dipendenti per mezzo della falsità, della paura, del discredito artatamente costruiti. Tale approccio apparentemente sembra legato ad una impreparazione di fondo del manager, ad una sua incapacità professionale, inesperienza, invece è subdolamente finalizzato a disorientare continuamente la controparte, ad orientarla verso la confusione, a mettere gli oppositori l’uno contro l’altro, ad elevare il livello dello stress senza che vi sia evidenza, per cui l’aggressività raggiunge punte elevatissime.

Non si comprende più qual è l’origine del conflitto, si dimenticano le cause che lo hanno originato, tutti sono invasi dall’ansia, dalle paure, dalla confusione. In questo modo si portano gli antagonisti ad assumere un esagerato comportamento difensivo, caratterizzato da aggressività, confusione e perdita di controllo.


Quando le figure dirigenziali si mostrano compiacenti con l’aggressore autoritario, la degenerazione delle relazioni spinge tutti a prendere una posizione. Anche gli altri dirigenti, che solitamente non si sarebbero compostati in modo aggressivo, finiranno per adottare comportamenti cinici, arroganti, estremamente negativi.

A questo punto l’aggressione si può strutturare su due livelli: 
  • un primo livello ove il lavoratore aggredito finisce sì per perdere opportunità di carriera, prestigio sociale e professionale, denaro, ma non arriva ad ammalarsi di depressione, raggiunge in buona parte i suoi obiettivi come il realizzare una famiglia e crescere dei figli, restando inserito nella comunità sociale;
  • nel secondo livello la vittima assiste alla progressiva e feroce distruzione della sua esistenza, con l’insorgere di gravi disturbi di personalità, con la necessità di realizzare il ritiro sociale, con l’impossibilità di crearsi una famiglia, di lavorare in modo proficuo, di vivere una vita piena e non indebitamente condizionata.
E’ molto difficile stabilire un confine tra i due livelli, ma è sicuro che una violenza in grado di condurre il lavoratore vittima delle aggressioni alla progressiva e feroce distruzione della sua esistenza deve essere denunciata penalmente. Perché i diritti dei cittadini non mutano a seconda delle armi e delle strategie che vengono utilizzate contro di loro.

sabato 14 settembre 2013

Disorientare il nemico per attaccare il suo punto di forza




“… Dove sei Rambo? Dacci la tua posizione che ti veniamo a prendere!"

“Murdock ... Sono io che vengo a prenderti!


(Dialogo tratto dal film Rambo II - La vendetta, del 1985)

venerdì 13 settembre 2013

L'iniziale tentativo di condizionamento





In tema di violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, psichiche e morali, attuata per motivi di lavoro, l’iniziale tentativo di condizionamento ha la seguente tipica struttura:
  • l’acquisizione del controllo sul tempo proprio della vittima, in particolare sul tempo dedicato all’acclimatazione relazionale con i colleghi ed all’adeguamento all’ambiente fisico;
  • la rielaborazione arbitraria di premi, punizioni ed esperienze professionali per provocare i comportamenti e gli atteggiamenti voluti;
  • la rielaborazione arbitraria di premi, punizioni ed esperienze professionali al fine di sopprimere precedenti comportamenti ed atteggiamenti;
  • l’attuazione di iniziative in grado di generare un senso di impotenza, inadeguatezza, paura e dipendenza, iniziative intraprese mentre, allo stesso tempo, viene fornito alla vittima un diverso modello comportamentale di riferimento;
  • l’utilizzo di eventi a forte impatto emotivo per manipolare l’immagine sociale e l’autostima della vittima ed opportunamente indirizzarne l’esperienza;
  • la realizzazione di un sistema gerarchico fortemente controllato e centralizzato, con un sistema logico ristretto in cui, quando la vittima del condizionamento dissente, viene fatta sentire come se le sue esitazioni indicassero che esiste qualcosa di intrinsecamente inidoneo in lei, nella sua psiche, nel suo modo di agire;
  • il mantenere la vittima in una condizione di inconsapevolezza sul fatto che esiste una strategia dissimulata operante sul comportamento, sul pensiero, sulle emozioni e sulle informazioni accessibili, strategia tesa a controllarla nonché a modificare ed indirizzare il suo agire.

domenica 8 settembre 2013

Corsi di formazione aziendali - Poco utili?



I corsi di aggiornamento e quelli di formazione, quando sono incentrati sul miglioramento della prestazione lavorativa così da favorire il raggiungimento degli obiettivi strategici dell’unità produttiva, sono efficaci solo per un breve periodo. 

Il cambiamento che dovrebbero apportare il più delle volte non avviene, o avviene in misura notevolmente inferiore alle attese, perché i destinatari dei corsi assumono un atteggiamento protettivo per loro stessi, sentendosi chiamati a dover garantire risultati migliori con nuove procedure. 

Il modo migliore per poter ottenere un cambiamento con i corsi di formazione in realtà è quello di strutturarli per la crescita culturale delle persone. Un’ottima idea è quella di portare i manager a teatro; meglio ancora portare il teatro nei luoghi di lavoro. Niente test di ingresso per verificare la preparazione prima del corso, niente test di apprendimento a fine lezione, ma una progressiva comprensione dell’animo umano, dei sogni e delle passioni che governano l’individuo. 

Tra tutte le opere di William Shakespeare, ad esempio, nessuna meglio del Riccardo III rappresenta bene la realtà distruttiva di uno psicopatico perverso desideroso di potere.

Riportare il tessuto produttivo fatto prevalentemente da piccole e medie imprese ad una dimensione "umana", è una delle strategie possibili per coinvolgere le menti più creative nel far crescere il Paese. I risultati migliori arriveranno da soli.


giovedì 5 settembre 2013

La Guerra Psicologica nel vero significato del termine




Perché il biondo Menelao, figlio di Atreo, chiede a suo fratello Agamennone di portare la guerra sotto le mura di Troia?

Per il potere.

Menelao non è il vero Re di Sparta. Elena, sua moglie, è Regina di Sparta, lui è divenuto Re per diritto acquisito. Quindi se Elena lo abbandona e sposa un altro uomo, Menelao perde il potere a cui è abituato. Questa, come ci ha narrato Omero, è l’autentica ragione della Guerra di Troia. Una guerra per imporre ad Elena una volontà che lei rifiuta.

Omero ci aiuta a capire bene la natura della guerra. Infatti non sarà Achille a determinare con la sua abilità nell’uso delle armi la fine del conflitto combattuto schieramento contro schieramento, bensì sarà Ulisse con l’inganno a decretare la fine della resistenza della città di Priamo. L’inganno, nella sua essenza, non è un fattore fisico, né tecnologico e nemmeno organizzativo.

Possiamo definire “Guerra Psicologica” quell’attività comunicativa volta ad alterare, direttamente o indirettamente, la percezione, la capacità di analisi, la coesione interna, l’autostima o la determinazione di un avversario, in modo da debilitarlo e raggiungere un vantaggio strategico al fine di imporgli la nostra volontà. Con il termine “avversario” non si intende necessariamente una persona; avversario può essere un gruppo, un’organizzazione, una società concorrente, una comunità politica oppure un’unione di individui aventi un interesse comune.

Per ottenere questo fine è necessario utilizzare una moltitudine di tattiche, ortodosse e non ortodosse.

Sul piano tattico qualunque cosa può essere utilizzata come “arma” per colpire ed alterare l’integrità dell’avversario, anche se la comunicazione falsa, malevola o paradossale resta il mezzo offensivo prioritario. Come conseguenza implicita, la guerra psicologica accresce la percezione, la capacità di analisi, la coesione interna, l’autostima e la determinazione di chi effettivamente la realizza.

In guerra prima si ottiene con la violenza la sottomissione dell’avversario alla propria volontà, poi si afferma il proprio dominio mettendolo nelle condizioni di non poter opporre ulteriore resistenza, infine si agisce per guadagnare il favore dell’opinione pubblica.

In estrema sintesi, se la situazione lavorativa che state vivendo ha una certa analogia con quanto appena indicato, probabilmente dovrete smetterla di autocolpevolizzarvi ed iniziare ad analizzare le dinamiche di potere con gli stessi criteri di un comandante stratega spartano.

Anche se non ve ne siete accorti, siete in guerra!

Per prima cosa, appurato ciò, è fondamentale comprendere il rapporto di forza con l’avversario. Se l’avversario ha un numero di risorse (rete di amicizie compiacenti, possibilità economiche, tempo, possibilità di esercitare dinamiche di potere, possibilità di controllare le informazioni, …) sovrastanti le nostre di almeno tre volte, lui è oggettivamente il più forte e noi siamo i più deboli. Se l’avversario ha un numero di risorse paragonabili alle nostre, il rapporto di forza è sostanzialmente in equilibrio. Se l’entità delle nostre risorse sovrasta quelle dell’avversario di almeno tre volte, noi siamo i più forti e lui è oggettivamente il più debole.

Nella violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, psichiche e morali, attuata per motivi di lavoro, l’aggressore è sempre in una posizione di supremazia, potendo dominare l’avversario con un rapporto di forza maggiore di tre ad uno. La guerra del più debole contro il più forte ha le sue regole e le sue logiche; è normalmente teorizzata ed indicata come: la Guerra di Guerriglia.

Non stupitevi di tutto questo, in fondo la pace non è altro che quell'arco di tempo che intercorre tra una guerra e l'altra.