lunedì 26 novembre 2012

L’invidia di Jago per Cassio



Jago dichiara: Non deve essere; se rimane Cassio, egli ha una quotidiana bellezza nella sua vita, che fa brutto me”.
La violenza di questa percezione finisce per suscitare nell’animo di Jago l’invidia più profonda. Accecato dall’odio egli non può far altro che bramare la distruzione di Cassio, quindi l’eliminazione del raffronto che lo vede perdente, suscitandogli una dolente ferita narcisistica.

Ancora Jago: “Lavora lavora mio veleno! Così si prendono in trappola gli schiocchi ingenui, e proprio così donne oneste e virtuose, senza alcuna colpa, vengono accusate”.

In questo passo è evidente che la comunicazione malevola sarà l’arma con la quale Jago intende portare a termine il suo piano; si servirà della comunità in cui Othello vive per creare in lui una condizione di profondo malessere interiore, così che persone per nulla perfide finiranno per divenire strumenti inconsapevoli di una forma di violenza subdola quanto efficace.

William Shakespeare descrive la figura di Jago con sorprendente realismo. Ancora oggi nelle aziende è possibile trovare parallelismi, perché la spinta emotiva che innesca la violenza deriva dal fatto che Jago si è rivoltato contro il suo superiore gerarchico perché scavalcato mentre cercava di ottenere l’avanzamento di carriera che, più di altri, riteneva di aver meritato.

Chiunque abbia lavorato per qualche tempo in un’Impresa o in un’Istituzione può ben comprendere perché Jago diventa crudele. Sentirsi messi da parte può avere effetti terribili su un narcisista perverso. E questo è oltremodo vero quando il funzionario si adopera non per il bene dell’istituzione o per svolgere al meglio il suo compito lavorativo, ma solo per raggiungere una condizione di “potere” così che gli altri si inchinino davanti alla sua influenza.

Per queste persone la violenza è nell’animo. Nessuno deve osare frapporsi fra loro e la scalata al successo; nessuno deve osare rifiutare loro una collaborazione, una prestazione professionale, un appoggio, pena la vendetta.

Supponiamo che un alto dirigente di una grande azienda debba scegliere di valorizzare uno solo dei suoi venti collaboratori. Se il dirigente è motivato dall’interesse del bene comune, ovvero della prosperità del gruppo lavorativo, allora inevitabilmente sceglierà la persona con le qualità migliori. E così agisce Othello nel momento in cui preferisce il fiorentino Michele Cassio. Ma un dirigente con una personalità psicopatica perversa non ragiona così. Lui non ha a cuore il bene comune, ma solo l’affermazione personale a breve termine. Quindi sceglierà la persona che potrà garantirgli al contempo: un valido sostegno nella sua scellerata iniziativa, un’assenza di rischio nel valorizzare qualcuno che potrebbe poi dimostrarsi anche troppo abile e preparato così da metterlo in ombra, una ridotta possibilità di deludere un collaboratore particolarmente aggressivo.

Il dirigente psicopatico ragiona su questa linea: “Se valorizzo il narcisista di turno che fa di tutto per mettersi in mostra ma che lui stesso sa di non possedere quella professionalità e quelle qualità morali che servirebbero all’Azienda, io ottengo la sua devozione. Al contempo il collaboratore idealista che non verrà valorizzato continuerà ad impegnarsi allo stesso modo, con la stessa intensità di prima, perché non lavora per affermare se stesso ma per il bene dell’organizzazione. Diversamente il narcisista di turno farà di tutto per vendicarsi ed ostacolare la mia ascesa, cercherà di annientare il mio prestigio, e questo non deve accadere per nessuna ragione al mondo, anche a costo di distruggere o smembrare il reparto o l’azienda stessa”.

Evidentemente una qualche tutela per chi si ritrova Jago nel proprio ambiente di lavoro, è necessaria. Quella che era stata indicata nell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, una sua ragione di essere l’aveva.

giovedì 1 novembre 2012

Destabilizzare il nemico



Il primo atto della forma di violenza che intendo descrivere in questo spazio consiste nel destabilizzare il nemico con azioni emotivamente aggressive in misura direttamente proporzionale alla sua autostima, alla forza d’animo ed alla sua capacità di attuare contromisure.

Tra le diverse figure che si possono incontrare nei luoghi di lavoro, sia nel privato che nella pubblica amministrazione, ce ne sono due che hanno una forte aspirazione ad esercitare “potere”.

Il più delle volte questo desiderio di potere è in realtà dovuto ad ambizione personale, narcisismo. Chi desidera esercitare potere lo fa ignorando i suoi veri compiti professionali, il mandato istituzionale, perché deve appagare una spinta emotiva irrefrenabile che lo spinge a calpestare la dignità del prossimo pur di raggiungere il proprio fine. 
Esercitare potere, per queste persone, è il modo di dimostrare a se stessi che le loro convinzioni sono giuste, che il loro modo di intendere l’esistenza è l’unico ad essere autentico, che il fine giustifica i mezzi e tutto è permesso pur di veder affermare la propria figura. Del resto non gli importa nulla.

Una parte di coloro che ambiscono al potere agisce per scopi diametralmente opposti. Per riuscire a modificare in meglio un’organizzazione è necessario l’impiego di dinamiche di potere, ma in questo caso il “potere” non è il fine ultimo, ma solo il mezzo con il quale ottenere il cambiamento. Queste persone si riconoscono dal modo autentico di affrontare le difficoltà, di comunicare con gli altri, di analizzare le organizzazioni e le dinamiche relazionali fra gli operatori. Sono coloro che fanno progredire la comunità sociale non per un fine egoistico, ma per la semplice soddisfazione, ad esempio, di veder realizzare un’opera utile per la collettività a cui nessuno dava possibilità di riuscita.

Personalmente sono convinto che coloro che ambiscono al potere per un fine egoistico sono persone piatte, non in grado di comunicare calore umano, non in grado di trasmettere o riconoscere le emozioni con l’intensità attesa. Se parlano in un convegno i loro discorsi sono banali, infarciti di ovvietà, ripetitivi, dominati da concetti che richiamano un ipercontrollo delle situazioni, una visione delle organizzazioni come bianco o nero, giusto o sbagliato. E’ come se il loro emisfero sinistro del cervello, l’emisfero razionale, si sia organizzato per ignorare o disattivare l’emisfero destro, l’emisfero emotivo. Infatti una delle caratteristiche che potrete notare è l’abilità dialettica associata alla capacità di mentire in un modo indegno e senza la minima remora, il minimo scrupolo. 

Poiché queste persone ricercano il ruolo di prestigio non per realizzare un progetto ma per procurarsi ulteriore popolarità, una volta raggiunta una posizione di potere dedicheranno il loro tempo a fare favori ai dirigenti più elevati per accattivarseli, faranno crescere coloro che fanno parte della cerchia ristretta degli amici dei potenti perché possano costoro, in futuro, spendere una buona parola, ricambiare la cortesia. Le organizzazioni lavorative che hanno un simile capo si trasformano immancabilmente in baracconi ove gli adulatori ed i furbetti dominano incontrastati.

Questo scritto è rivolto soprattutto ai ragazzi che si sono da poco inseriti nel mondo del lavoro. La condizione di “ultimo arrivato” può essere superata con intelligenza da un dirigente capace ed intuitivo, ma può anche essere un evento particolarmente devastante. Se avete l’opportunità ed un minimo di capacità di analisi fate attenzione a come è stato organizzato il vostro inserimento, perché per le persone che desiderano esercitare potere per loro stessi potreste rappresentare un pericolo. Fate estremamente attenzione perché il destabilizzare il nemico con azioni emotivamente aggressive in misura direttamente proporzionale alla sua autostima, alla forza d’animo ed alla sua capacità di attuare contromisure, potrebbe vedervi come il bersaglio designato. 

Considerate che, tipicamente, le comunità lavorative dirette da una figura marcatamente narcisista sono governate in modo da nascondere le deviazioni organizzative, mentre vedrete addossare ingiustamente colpe alle persone più capaci, oppure semplicemente a coloro che più si espongono nel loro modo di lavorare. Un primo passo per non finire nella rete è quello di riconoscere le dinamiche di potere esercitate nel proprio ambiente di lavoro, qualunque esso sia.

mercoledì 29 agosto 2012

L'Universo di Albert


Una delle espressioni più conosciute di quelle attribuite ad Albert Einstein recita: “Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana, ma riguardo l'universo ho ancora dei dubbi”.

Chi si occupa in modo competente di sicurezza e salute negli ambienti di lavoro, spesso identifica la propria professionalità con la capacità di ricordarsi a memoria le decine di articoli che compongono un provvedimento del legislatore, oppure sostiene la propria abilità nel ricondurre una procedura, un processo, un evento al corrispondente precetto trattato in un articolo dalla Legge.

Non è così.

Nell’ambito della prevenzione chi ha grandi capacità lo si riconosce per la cultura, per le attitudini organizzative, per l’approccio a favorire il cambiamento in una struttura di per se anche non particolarmente problematica, ma che con opportune correzioni può essere ricondotta ad un livello di sicurezza e salute almeno accettabile.

Per fare questo è necessario introdurre o perfezionare un atteggiamento che comprenda:

  • Mantenere senso di vulnerabilità;
  • Combattere la normalizzazione della devianza;
  • Stabilire un imperativo per la sicurezza;
  • Eseguire valide e tempestive valutazioni dei rischi;
  • Garantire una comunicazione interpersonale franca e aperta;
  • Formazione e far avanzare la cultura.
E’ esperienza comune che, dopo un certo arco di tempo, si vadano consolidando dei modi di operare, delle procedure leggermente diverse da quanto pianificato e concordato. In genere questo avviene perché gradualmente si perde la cognizione del pericolo, della possibile anomalia in grado di creare la situazione critica. Si arriva a ritenere sempre più improbabile il verificarsi del pericolo senza una vera motivazione razionale, ma solo per mancanza del senso di vulnerabilità. Per evitare ciò è necessario combattere fin da subito le procedure ed i comportamenti devianti, prima che vengano adottati in modo ricorrente.

Chi si occupa di prevenzione deve dare il buon esempio, deve favorire il trasferimento della cultura del rischio e di come è spesso semplice ridurlo senza costi aggiuntivi.

Vi sono persone che non conoscono o non comprendono questo approccio alla sicurezza ed alla salute aziendale. Nella quasi totalità delle volte sono personalità narcisistiche che con la prevenzione non hanno nulla a che vedere. Li riconosci dal modo insincero di comunicare, dalle statistiche che presentano, dalle indagini storiche che illustrano. Sono coloro che parlano di denaro, interessi economici, trame di potere, e non hanno alcun interesse a realizzare progetti perché la cultura della sicurezza si affermi realmente. Su quella dell’universo no, ma sull'infinità umana abbiamo, purtroppo, la certezza.

martedì 14 agosto 2012

Non è facile analizzare ed assimilare il concetto di cosa è "Potere" - II parte


Seconda dinamica di potere 
Il potere dell’integrità è il potere legato alla fidatezza ed alla coscienziosità dimostrati.
La fidatezza è la qualità delle persone corrette, sincere, che prendono le loro decisioni secondo i propri principi, secondo la propria morale. 

Dimostriamo la nostra fidatezza costruendo rapporti interpersonali basati sulla fiducia, avvalorando ad ogni occasione quanto siamo affidabili ed autentici. 
A volte la fidatezza si dimostra prendendo in carico problematiche scomode, oppure assumendo all’occorrenza posizioni di principio quand’anche malviste dalla comunità sociale.

La coscienziosità è la qualità di coloro che ammettono con sincerità i propri errori, di coloro che onorano gli impegni e mantengono le promesse fatte, di chi si ritiene responsabile della conquista dei propri obbiettivi, di chi ha organizzato con attenzione la propria esistenza ed è impegnato e scrupoloso nel lavoro come nella famiglia.
L’integrità, ossia l’agire in modo onesto, aperto e coerente, distingue le persone capaci di performance eccellenti in ogni tipo di iniziativa.

Il potere è dovuto al fatto che la fiducia e la stima che ci siamo meritati nel tempo sono le garanzie delle nostre scelte, scelte che non esitiamo a proporre e che vengono prontamente accettate perché considerate, fino a prova di smentita, eticamente corrette.
Consapevoli di ciò, una volta costruito il clima di fiducia, esercitiamo tale potere quando allontaniamo da noi comportamenti devianti oppure quando giudichiamo ammissibili innovazioni e modi di agire non ortodossi ma corretti.
I nuovi equilibri associati al cambiamento sono delicati, fragili, l’integrità di chi ha proposto un nuovo modo di lavorare li rende più saldi. Subiamo tale potere quando, cercando di forzare una decisione di per se eticamente scorretta, ci viene opposta l’integrità morale altrui.

E’ fondamentale ora evidenziare una peculiarità propria di qualunque dinamica di potere: è possibile esercitare potere pur senza detenere quello stesso potere.

Infatti possiamo definire potere percepito la percezione del nostro potere che gli altri hanno. Tale percezione può essere un’immagine maggiore, autentica oppure minore del potere da noi realmente posseduto, ma può anche essere l’immagine di un potere inesistente come quello millantato o quello presunto.

Una qualunque dinamica di potere ci può permettere di ottenere risultati purché ci limitiamo ad esercitare il potere percepito, ovvero sfruttando l’immagine mentale della controparte che il nostro ambito è da noi sottoposto all’esercizio di un’influenza o di un dominio per lo più assoluti. Siamo certamente in grado di mantenere quanto abbiamo, magari implicitamente, prospettato.

A questo punto diventa comprensibile una delle strategie più infide per annientare un potenziale nemico nel luogo di lavoro: impedirgli di “prendere riputazione” (Machiavelli) utilizzando espedienti volti a ridurre progressivamente la sua capacità di esercitare dinamiche di potere, non tanto agendo direttamente sul potere da lui realmente posseduto ma sulla percezione che gli altri hanno di quel potere.

Nel suo libro “Vom Kriege” (“Della Guerra”, 1832), Carl von Clausewitz scrive: «La violenza è dunque il mezzo; l’imposizione della nostra volontà al nemico è lo scopo. Per raggiungere con sicurezza questo scopo dobbiamo disarmare il nemico: questo è concettualmente l’obiettivo vero e proprio dell’azione bellica. Esso prende il posto dello scopo e lo respinge in un certo senso come qualcosa che non appartiene alla guerra stessa».

Quindi, nel caso del potere dell’autorevolezza, per disarmare il nemico sul luogo di lavoro è sufficiente impedire l’aggiornamento ed evitare le opportunità per la crescita professionale. Altro metodo consiste, da un lato, quello di impedire lo svolgimento di attività per le quali è necessaria una specifica professionalità in modo da negare risultati che possano creare prestigio, dall’altro quello di nascondere o denigrare immancabilmente le azioni professionalmente valide realizzate oppure attribuire ad altri i meriti; in questo modo ben presto il nostro avversario non verrà più considerato un esperto, una persona preparata. Anche la proposta di un’innovazione creativa può essere efficacemente contrastata con un atteggiamento critico ma il metodo più efficace consiste nel prevenire simili iniziative, con scadenze lavorative impietose, con un ipercontrollo delle attività seguito dalla più capillare gestione di ogni singolo aspetto, con un’assidua sorveglianza personale in grado di evidenziare un clima di limitata libertà e scoraggiare ogni forma di originalità.

Al pari, volendo ancora disarmare il nemico, nel potere dell’integrità deve essere contrastato l’instaurarsi del clima di fiducia ed il raggiungimento di una buona reputazione professionale. Quindi il soggetto deve essere indicato come persona particolarmente inaffidabile, irresponsabile e non coscienziosa, qualunque risultato abbia raggiunto e qualunque atteggiamento abbia assunto; in altre parole deve essere mortificata la sua integrità perché da essa si genera la credibilità professionale. In particolare, poiché è sempre possibile trovare una falsa motivazione “interessata” per ogni comportamento umano, deve essere immancabilmente svilito pubblicamente ogni suo atteggiamento etico. Inoltre per impedire che vengano rispettati gli impegni, devono essere assegnati compiti estremamente complessi, meglio ancora se oggettivamente impossibili da portare a termine, e qualora ciò dovesse accadere si deve provvedere ad espropriare i meriti.
Per contrastare questa tendenza è probabile che la vittima si difenderà assumendo progressivamente la condotta più irreprensibile, questa contromisura dev’essere immediatamente riconosciuta ed utilizzata per screditare ulteriormente le qualità dell’avversario, accusandolo di falsità e di aver sviluppato un “comportamento rigido” che mal si adatta al clima informale e collaborativo del gruppo.

Semplice, no?

sabato 4 agosto 2012

Come utilizzare al meglio questo Blog


Gli argomenti trattati in questo spazio non sono di facile assimilazione se non si sta vivendo una situazione conflittuale sul luogo di lavoro. Per quanto possa sembrare irrazionale certi comportamenti non sono comprensibili con la comune esperienza di vita, anzi la personalità psicopatica perversa sfrutta questa prerogativa per celare un’aggressione dolosa.

Per chi è coinvolto suo malgrado in una guerra psicologica iniziata per motivi di lavoro, io consiglio di seguire periodicamente quanto viene pubblicato nel Web ed apprendere dall’esperienza altrui. Non c’è necessità di farlo in modo ossessivo, ma tramite la rete possiamo trasferire informazioni mirate a svelare come vengono nascoste certe dinamiche di potere.

sabato 9 giugno 2012

Il rapporto tra persecutore e la sua dolce compagna




Il rapporto che talvolta si instaura tra un persecutore psicologico e la persona vessata non deve trarre in inganno: anche se la vittima non ha piena consapevolezza del condizionamento subito e non è in grado di esprimere con precisione le proprie emozioni, la coercizione è rilevabile ad un’analisi più approfondita. Nonostante ciò molte donne non riescono a troncare con decisione un rapporto con un compagno prepotente o violento, lo vediamo purtroppo dalla cronaca, un poco alla volta si lasciano portare alla deriva senza riuscire ad interrompere la catena dell’abuso. 

Quando inizia la strategia perversa e la persona perseguitata incomincia a percepire che il rispetto reciproco, l’entusiasmo, il desiderio di sperimentare uno stile di vita più adatto alla propria identità, l’affetto non solo non sono esattamente quello che si attendeva dal proprio compagno, ma virano in un rapporto basato sul dominio, sull’imposizione autoritaria della propria volontà, sul discredito sistematico (“sei brutta …”; “non sei una buona madre …”; “proprio con una come te dovevo mettermi …”), il sogno va in frantumi ed una realtà inattesa si profila minacciosa. 

Le donne psicologicamente vessate reagiscono in modo da non difendere la loro dignità, l’autonomia, le qualità morali, l’autostima, non si allontanano e, per paura, accettano la situazione con il progressivo adattamento.

Non è certo facile restare razionali in una situazione di abuso psicologico perché le aggressioni sono soprattutto emotive. Una volta appurato che il fascino del proprio compagno era solo superficiale e nascondeva una personalità profondamente narcisistica, la capacità di analisi della persona vessata subisce un arresto. In una condizione di intensa incertezza e smarrimento l’iniziale vitale tentativo di ribellione ben presto si affievolisce, le energie psicofisiche si esauriscono, la vittima avverte l’incapacità di generare il benché minimo cambiamento e sperimenta la condizione di sentirsi emotivamente esausta. La perdita delle risorse emotive la espone alla violenza più tremenda, una violenza che cerca di analizzare per poterla percepire almeno con un margine di anticipo, ma che risulta sfuggente, difficile da inquadrare e da dimostrare. 

Poiché la condizione di stress non permette di utilizzare al meglio le proprie facoltà mentali, le donne vittime della violenza psicologica acuiscono il loro naturale intuito, diventano ipersensibili, fanno ricorso alla componente emotiva della loro intelligenza, leggono, si confidano con le amiche, si rivolgono ad uno specialista, si organizzano per raccogliere più informazioni possibili per comprendere come mantenere un minimo di equilibrio e cercare di prevenire gli sviluppi. 

Guardando dall’esterno è possibile individuare dei fattori comuni nelle situazioni che caratterizzano la violenza morale in famiglia: il progressivo isolamento ed una condizione di profonda svalutazione della vittima. 

L’isolamento è necessario perché l’aggressore deve privare la sua dolce compagna del supporto sociale, così che non possa contare della vicinanza emotiva di amici, sorelle, genitori. Quando una persona si ritrova a dover contrastare un’aggressione in solitudine è molto più difficile percepire quell’evento appunto come una vera aggressione, perché il dubbio di aver soggettivamente esagerato un episodio di poco conto arriva anche alle personalità forti e sicure delle proprie impressioni. E poi c’è sempre la tendenza delle persone coscienziose ad autocolpevolizzarsi e sentirsi quantomeno in parte responsabili. Con l’isolamento si crea dipendenza, e la dipendenza economica, ad esempio, è un altro fattore utile all’aggressore. Paradossalmente poi la vittima stessa nel tempo tende a nascondere la propria condizione isolandosi ed, inconsapevolmente, finisce così per agevolare la strategia aggressiva. 

La svalutazione avviene con una comunicazione violenta e può essere ricondotta sia alla denigrazione di quanto di buono la persona molestata ha realizzato, sia alla negazione sistematica di nuove opportunità che potrebbero fargli riguadagnare autostima. La vittima viene progressivamente confinata in una condizione di profondo avvilimento con accuse ed umiliazioni, ed a nulla serve cercare di non dare argomenti al persecutore perché, in assenza di punti di appiglio, nella comunicazione violenta le accuse vengono basate su opportune falsità.

In ogni caso l’elemento base su cui si fonda la strategia violenta è la paura, abilmente instillata nella mente della vittima perseguitata per paralizzare le sue possibili reazioni.

domenica 3 giugno 2012

Da che cosa deriva l’auto-colpevolizzazione nelle molestie morali



Secondo l’Analisi Transazionale esistono quattro posizioni di vita:

Io sono OK – Tu sei OK
Io non sono OK - Tu sei OK

Io non sono OK - Tu non sei OK
Io sono OK - Tu non sei OK

Nelle situazioni in cui il soggetto percepisce la posizione Io non sono OK - Tu sei OK si avrà preferibilmente un’iniziativa tipo: Vado via da ….
L’azione Vado via da … può essere indotta, per cui per ottenere l’auto-allontanamento è necessario convincere il nostro avversario a percepire se stesso come persona inadatta, inadeguata, non all’altezza della situazione, mortificandolo anche sul piano umano. In altre parole portarlo progressivamente, spingerlo emotivamente nella posizione: Io non sono OK - Tu sei OK.
Per rafforzare nella vittima questa percezione di se stesso l’aggressore deve assumere la posizione Io sono OK - Tu non sei OK, posizione che è biunivocamente legata all’azione: Mi libero di ….

In questo modo il perseguitato, mentre è disperatamente in cerca di smentite sulla sua inadeguatezza, percepirà invece quanto si potrebbe attendere nel caso in cui la sua posizione Io non sono OK - Tu sei OK fosse vera.

A questo punto, sia che Mi libero di … sia un’azione reale, sia che sia stata assunta artificialmente per opportuna convenienza, l’avversario si auto-colpevolizzerà. Di fatto dovrebbe essere estremamente forte per rifiutare il doppio inganno e credere in se stesso fermamente. In particolare questo è vero quando sono gli stessi superiori gerarchici ad avvalorare la tesi della sua inadeguatezza. Per questo deve essere isolato dalla dirigenza fin da subito facendolo apparire come incapace, fannullone, lasciando intendere che non è persona degna di fiducia, non è in grado di svolgere le mansioni per le quali è stato assunto, ha strane abitudini sessuali e non si lava a sufficienza.

Questo è solo un esempio di come sia sottile la violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, ove la comunicazione riveste un ruolo fondamentale poiché è lo strumento con la quale viene attuata. È la comunicazione stessa ad essere violenta, ma in un modo che non è percepito nella sua gravità perché opportunamente nascosto dietro forme espressive emotive.

È fatto notorio che la reazione umana legata al fattore emotivo tende a prevalere sulla razionalità; ciò è utilizzato ad arte da alcuni individui per distrarre e celare atteggiamenti o comportamenti idonei ad incutere timore e condizionare la libertà di agire degli altri, quand’anche non sufficienti a suscitare un danno irreparabile alla loro vita di relazione.

sabato 2 giugno 2012

Non è facile analizzare ed assimilare il concetto di cosa è "Potere"


Nell’edizione del 1990 del Dizionario della lingua italiana Devoto-Oli che custodisco gelosamente, una delle definizioni del termine “potere” è la seguente: “Ambito sottoposto all’esercizio di un’influenza o di un dominio per lo più assoluti”.

E’ un concetto non facile da assimilare nella sua complessità, anche perché raramente capita la necessità di approfondire un simile tema. Così ci accontentiamo dell’idea vaga ed approssimativa che ci siamo fatti negli anni in modo empirico, e tanto ci basta.

Di fatto il potere lo identifichiamo con la capacità, la possibilità o l’abilità di fare o far fare qualcosa a qualcuno. Per comprendere però come funziona la violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni dobbiamo analizzare a fondo tale concetto poiché, come William Shakespeare ci ha dimostrato, le dinamiche di potere sono molteplici e personalmente penso di averne identificate solo alcune di quelle che utilizziamo e subiamo ogni giorno nei luoghi di lavoro.


Prima dinamica di potere
Quando partecipiamo ad un convegno, ad una giornata di studio, ad un corso di formazione ci attendiamo di ascoltare come relatore una persona particolarmente preparata sull’argomento di nostro interesse. Siamo lì spesso solo per curiosità, ma anche perché ci viene offerta l’occasione di progredire nella conoscenza di un determinato argomento, oppure di rivedere posizioni o informazioni oramai obsolete, per cui l’elaborazione mentale che poi ne conseguirà resterà nostro patrimonio almeno per un certo tempo, fino alla eventuale formazione di un nuovo paradigma. Ne consegue che la persona che siamo pronti ad ascoltare avrà necessariamente una certa influenza su noi stessi, sul nostro insieme di convinzioni o sul nostro futuro modo di agire.
Se l’esposizione, per correttezza dell’enunciazione, per scrupolosità di analisi, per i riferimenti ad altre opere scientifiche che già conosciamo, supererà i nostri parametri di selettività delle informazioni, noi la classificheremo come autorevole ed il relatore avrà inevitabilmente esercitato su di noi una forma di potere.
Il potere dell’autorevolezza è dovuto alla percezione che abbiamo della preparazione specifica, o dell’abilità di iniziativa, oppure dell’esperienza dell’altro, sicuramente migliori o più circostanziate di quelle che riconosciamo a noi stessi oppure al nostro gruppo.
Quindi di fronte ad una persona che percepiamo dotata di considerazione in un determinato ambito, subiamo il suo potere dell’autorevolezza tutte le volte che riteniamo di non essere in grado di agire, esporre, indicare o svolgere un compito altrettanto bene quanto lui. Più in generale quando siamo costretti a rivolgerci e sottostare alla sua professionalità per poter soddisfare una qualche nostra esigenza.
Con considerazioni diametralmente opposte possiamo identificare anche il contesto nel quale siamo noi ad esercitare il potere dell’autorevolezza, ovvero quando siamo noi quelli capaci di agire, esporre una considerazione particolarmente significativa, consigliare iniziative, indicare o svolgere un compito con una superiore competenza o dinamismo. Nella prima situazione siamo in una condizione di passività, quindi subiamo la dinamica di potere; nella seconda ci troviamo in una posizione attiva, quindi è la controparte che subisce la dinamica di potere.
In modo intuitivo, in un contesto lavorativo l’abilità di proporre un cambiamento, suggerire una innovazione, introdurre una trasformazione o una nuova prassi è favorita dall’autorevolezza che abbiamo conquistato nel tempo. Per poter indicare una eventuale innovazione, ad esempio in un ciclo industriale oppure nelle modalità di distribuzione del prodotto o di organizzazione della rete commerciale, è opportuno prima aver compreso a fondo tutte le vere esigenze e, dopo aver vagliato con competenza le possibili soluzioni, individuare una o due trasformazioni praticabili in modo da rendere obsolete le precedenti modalità. Le probabilità di far fronte alle difficoltà che inevitabilmente si presenteranno prima della messa a regime saranno direttamente proporzionali alla nostra autorevolezza.

mercoledì 23 maggio 2012

La molestia sessuale come manifestazione di potere


Con il termine “molestia sessuale” si può intendere in generale “… ogni atto o comportamento indesiderato, anche verbale, a connotazione sessuale arrecante offesa alla dignità ed alla libertà della persona che lo subisce, ovvero che sia suscettibile di creare ritorsioni oppure un clima di intimidazioni nei suoi confronti”.

Detto così l'ambito sembra sufficientemente delimitato perché l’espressione “a connotazione sessuale” impone una certa demarcazione e sembra escludere dall'insieme tutti quei comportamenti indesiderati in grado comunque di generare offesa alla dignità della persona ma che, allo stesso tempo, non possono essere ricondotti tipicamente alla sfera della sessualità. 

Invece, analizzando più approfonditamente, non è affatto così.

Per quanto presente in letteratura è oramai evidente che, negli attuali ambienti di lavoro, talvolta si verificano atti di molestia portati avanti da un soggetto che non si adopera per ottenere quei favori sessuali che la prima impressione sembrerebbe evidenziare, bensì per esibire impudentemente il proprio potere, la considerazione sociale raggiunta e consolidata, per dimostrare che lui è al di sopra delle regole di civile convivenza, che nel suo ambiente trasformato in regno lui può tutto e tutto gli è dovuto. 
Il prepotente, poi, agisce così anche perché conosce bene quali difficoltà si incontrano nel tentativo di rappresentare un'aggressione emotiva con il solo linguaggio verbale.

Tale similitudine di intenti crea una sostanziale parificazione tra la molestia morale e la molestia sessuale.
Cercando di debilitare gradualmente le resistenze psicologiche della vittima entrambe vengono perpetrate in modo subdolo, per lo più con una comunicazione ambigua, violenta, paradossale, di fatto difficilmente dimostrabile; per questo ancora oggi la gran parte delle donne sessualmente molestate si trattengono e non denunciano il loro persecutore. E se le donne sono costrette a questo spetta a noi uomini intervenire perché la dignità umana venga rispettata.

venerdì 4 maggio 2012

Emarginazione



A tutti gli altri piaceva questo, ma non certo ad Era, a Poseidone e alla vergine dagli occhi azzurri; sempre avevano in odio, come prima, Ilio sacra e Priamo e il suo popolo, per colpa di Paride, che aveva offeso le dee quando nella capanna gli vennero, e lui lodò quella che gli offrì l’affannosa lussuria”.

Omero, Iliade, XXIV, 25-30, (versione di Rosa Calzecchi Onesti, Giulio Einaudi Editore Spa, Torino)



In questo passo dell’Iliade si fa riferimento al Giudizio di Paride. Del matrimonio tra Peleo e Teti (i futuri genitori di Achille), in fondo, alla dea Eris non importava granché, ma era inaccettabile l’emarginazione subita. Tra gli invitati ai festeggiamenti lei non figurava, così decise di rovinare le nozze e vendicarsi sfruttando abilmente il narcisismo di Era, Atena (la vergine dagli occhi azzurri) ed Afrodite, gettando sulla tavola una mela d’oro con inciso “Alla più bella”. Per decidere a chi andava assegnato il prezioso pomo, viste le accese dispute emotive, venne incaricato Paride che scelse Afrodite e, contemporaneamente, si inimicò le altre due.


Tra l’ampia serie di pubblicazioni che, nel tempo, si sono succedute sulla situazione emotiva che una persona sottoposta a molestie è costretta suo malgrado a dover affrontare, ce n’è una non molto conosciuta intitolata: “Il Rifiuto Danneggia? Uno Studio realizzato con la tecnica della Risonanza Magnetica Nucleare funzionale sull’Emarginazione Sociale”, lavoro pubblicato in lingua inglese sulla prestigiosa rivista americana Science in data 10.10.2003, dalla Dr. N.I. Eisenberger e dal Dr. M.D. Lieberman, University of California Los Angeles – USA, nonché dal Dr. K.D. Williams, Macquarie University, Sydney - Australia (http://www.scn.ucla.edu/pdf/Cyberball290.pdf).

Nella pubblicazione si afferma che è stata possibile verificare sperimentalmente con la tecnica RMNf una conseguenza neurobiologica dell'emarginazione sociale: l’attivazione della corteccia cingolata anteriore, ossia proprio la zona del prosencefalo umano predisposta a ricevere ed elaborare i segnali del dolore fisico. (Rivista “Science”, 2003, volume 302, pagine 290 ÷ 292)

Per “emarginazione sociale” deve intendersi la condizione esistenziale ai margini della società e di limitato riconoscimento del proprio lavoro, delle proprie qualità umane e professionali, artistiche, della propria figura individuale, del ruolo e dell’utilità all’interno della comunità sociale d’appartenenza. In genere per portare una persona a questa condizione non è necessaria una strategia complessa in quanto la calunnia, il discredito organizzato, risultano purtroppo ampiamente sufficienti.

Parlare male di qualcuno, generare discredito sfruttando la comunicazione emotiva ("Ne ha combinata una di cui non ti posso nemmeno raccontare ..."; "Non è in fondo colpa sua, ci mette tanto impegno, ma madre natura con lei è stata parsimoniosa ..."), oppure attribuirgli gravi mancanze in realtà commesse da altri, crea un’onda che verrà cavalcata anche da chi non conosce fatti e circostanze, ma sente di poter dare il proprio personale contributo mostrandosi all’altezza della situazione. Unirsi al più forte genera sentimenti di appartenenza. 
Per la vittima è una condizione psicologicamente devastante quando diviene il risultato di una elaborata strategia di sistematiche vessazioni, spesso motivata da fattori quali l’etnocentrismo, l’invidia, la gelosia professionale, dalla necessità di eliminare un possibile concorrente dalle opportunità di carriera, oppure di allontanare un lavoratore in grado di comprendere troppo bene certe disdicevoli strategie di leadership.

mercoledì 2 maggio 2012

Mantenersi in buona salute




Mantenersi in buona salute, sempre, è la prima regola per un combattente. 

Qualunque sia la tipologia di conflitto la prima regola è universale. Nella tipologia di guerra trattata in questo blog è imperativo mantenere l’equilibrio psicofisico, perché l’aggressione mira a destabilizzarlo. È una guerra subdola, non dichiarata, che prevede, per la totalità dei casi, lo scontro del più debole contro il più forte.

Ci si accorge in ritardo dell’aggressione. Ad un certo punto, quello che sembrava un conflitto temporaneo dovuto a motivazioni marginali, assume ben altro aspetto se analizzato con i criteri appropriati. Senza eventi particolarmente significativi l’aggredito si ritrova in una prigione emotiva, ove le molestie sono ripetute in modo ossessivo ed equivoco, così è costretto continuamente a rimuginare, a dubitare, a cercare una traccia per risalire alla possibile vera motivazione che ha generato il tentativo di ostracismo. La capacità di concentrazione sugli impegni lavorativi svanisce un poco alla volta ed anche portare a termine gli incarichi più semplici diviene oltremodo impegnativo. La trappola emozionale logora progressivamente l’intero organismo, per questo il mantenersi in buona salute è imperativo. 

Trovarsi improvvisamente a dover riconsiderare la realtà perché si è accesa la spia dell’emergenza, è una condizione che porta inevitabilmente ad uno shock non solo emotivo, ma anche fisico. Quando accade diviene importantissima la forza di volontà. Il desiderio di superare quanto è stato realizzato contro di noi deve poter prevalere, perché il subire passivamente è distruttivo. 

Come per chi affronta una parete rocciosa può accadere che in conseguenza di un imprevisto, un improvviso cambiamento delle condizioni atmosferiche, un’attrezzatura difettosa, sia costretto in una condizione di emergenza ove non è più in gioco solo la buona riuscita dell’arrampicata ma la propria stessa esistenza, allo stesso modo la vittima della violenza psicologica deve reagire partendo da un punto fermo: restare in vita ad ogni costo!
Non deve mai venire meno la volontà di sopravvivere, di affrontare le difficoltà con intelligenza, perché senza una tale volontà anche un eventuale aiuto esterno si rivelerebbe inutile. La situazione che può esservi capitata da gestire e risolvere, per quanto complicata, non potrà superare quella che ha dovuto affrontare l’Ing. Eugene “Gene” Kranz, il direttore delle operazioni di volo dell’Apollo 13: evento mai accaduto prima; impossibile qualunque operazione di salvataggio con altri mezzi perché luogo assolutamente irraggiungibile; difficoltà estrema da evento solo in parte conosciuto; tre persone sicuramente in pericolo di vita; enorme pressione psicologica. Eppure Gene Kranz ha riportato sulla Terra quei ragazzi.
Ed una difficoltà paragonabile era già accaduta, ad esempio, a Sir. Ernest Shackleton, la cui spedizione agli inizi del ‘900 per la traversata del Polo Sud si è trasformata in una incredibile operazione di salvataggio. Ernest Shackleton ha organizzato partite di calcio e spettacoli teatrali sul ghiaccio per non far cadere nella disperazione i suoi uomini, e li ha salvati tutti. Ora tocca a noi dimostrare che le capacità di adattamento dell’organismo e di analisi della mente umana sono straordinarie. 

Mantenersi in buona salute significa contrastare la paura, la collera, il desiderio di vendetta, l’ansia. Significa scegliere un’alimentazione adeguata, mantenere una discreta attività fisica, camminare, significa mettersi in discussione ed accettare la necessità di una psicoterapia di sostegno. Dobbiamo partire da un dato di fatto: possiamo contare solo su noi stessi perché nessuno verrà in nostro soccorso e gli amici un poco alla volta ci allontaneranno. E questo non è detto che sia propriamente un male.

Scoperta la trama è necessario decidere la reazione. Qualunque essa sia, il suo compimento sarà condizionato in modo importante dalla forza di volontà profusa. La persona sottoposta a molestie morali potrà organizzare una propria strategia difensiva, oppure scegliere di lasciare il luogo di lavoro, magari con un trasferimento in altra sede, con un cambio di incarico di pari professionalità, perfino rassegnando le dimissioni, Ma deve essere una scelta consapevole, ponderata nei minimi particolari, libera, perché la decisione lotta o fuga sarà una delle più importanti della sua esistenza ed ognuno è libero di autodeterminare la propria.

Prima di decidere la reazione è fondamentale però analizzare la strategia che ci è stata organizzata contro, in modo da poter individuare i suoi confini, elencarne le caratteristiche, riconoscere i suoi punti forti ed i punti deboli, ideare delle contromisure efficaci.

martedì 1 maggio 2012

Inizio


In questo spazio intendo contribuire ad illustrare e commentare una forma di violenza complessa basata sulla comunicazione falsa, malevola e paradossale. 

Si tratta di argomenti che potranno essere percepiti in modo diverso a seconda dell’indole di chi legge, poiché ognuno di noi non dà esattamente lo stesso significato agli eventi e non intende allo stesso modo l’esistenza umana. Anche per questo motivo intendo precisare fin da subito che i contenuti dei vari post non avranno la pretesa della scientificità né della verità storica, e non saranno riferiti a vicende o personaggi reali, saranno solo l’espressione delle mie convinzioni personali narrate avvalendomi del diritto costituzionale di manifestare liberamente il mio pensiero. 

Troveranno spazio anche altri tipi di interventi nel rispetto della natura del Blog, inteso come uno spazio comunicativo libero ove una fotografia può essere affiancata ad una citazione letteraria, ad un insieme di slide oppure ad una poesia. Il tutto spero risulti gradevole.


Questo Blog è dedicato a chi svolge il proprio lavoro con passione; qualunque esso sia.

La struttura della violenza
Volendo provare a dare una definizione formale si potrebbe affermare che: La violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, psichiche e morali, attuata per motivi di lavoro, è quella forma di violenza dolosa costituita da più azioni, non necessariamente reiterate nel tempo con una cadenza costante e non dotate nemmeno di apprezzabile energia fisica, ma in grado di generare, tramite attacchi psicologici estremi, forme di assoggettamento indebito o di ostracismo, nonché far insorgere una significativa alterazione delle funzioni psicofisiche nella vittima designata. Consiste in un susseguirsi di eventi traumatici e micro traumatici, aventi come obiettivo il progressivo indebolimento delle resistenze psicologiche e come scopo la manipolazione subdola della volontà del soggetto aggredito.

In altre parole questa forma di violenza, pur basata quasi esclusivamente sulla comunicazione, è comunque in grado di far insorgere un turbamento dell’equilibrio nella psiche della vittima. Così come è possibile provocare lesioni all'organismo umano mediante una sostanza nociva e provocare una intossicazione, in modo corrispondente è possibile avvelenare a piccole gocce la psiche di un qualunque individuo mediante una comunicazione falsa, malevola o paradossale. 

Questa forma di violenza ha una sua struttura tipica che comprende:

  • l’iniziale comportamento ambiguo, paradossale, abnorme, violento o minaccioso finalizzato a destabilizzare la vittima designata; 
  • il tentativo di assoggettamento indebito;
  • la durata nel tempo di una condotta sempre più illegittima dell’aggressore quando esaminata unitariamente; 
  • la reiterazione delle azioni ostili inquadrabili come una forma di terrorismo psicologico
  • l’esaurimento delle risorse e delle capacità di reazione dell’organismo della vittima designata dopo un tentativo di resistenza inefficace; 
  • un danno da rottura dell’equilibrio psicofisico ingiustamente provocato.
Questo schema peculiare lo si può trovare anche in certi rapporti familiari ove una figura, dopo aver inutilmente cercato di debilitare e soggiogare emotivamente l’altra, incapace di accettare il mancato asservimento oppure l’allontanamento, si produce in ripetute e soffocanti azioni moleste, o addirittura traumatiche, per demolirla psicologicamente, così da appagare la propria ferita narcisistica. 

Una parte significativa delle violenze in famiglia che le donne non denunciano ha questa genesi.