domenica 18 maggio 2014

Perché se lo merita





Una delle cose che lascia letteralmente sbalorditi, quando si subisce la violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, è osservare come muta il comportamento delle persone che, in precedenza, si erano mostrate apparentemente razionali, equilibrate, amichevoli.

I meccanismi psicologici che sono alla base di tale cambiamento improvviso, a mio modo di vedere, sono stati spiegati solo in parte, ma è certo che il gruppo crea una situazione del tipo: o con noi, o con lui!

O partecipi all’aggressione, ed allora siamo disposti ad accettarti, oppure te la faremo pagare e farai la stessa fine. 

Non c’è necessità che tale frase venga pronunciata in concreto, può essere sottintesa con uno sguardo, un gesto, un silenzio.

In questo post voglio illustrare solo uno degli aspetti legati a questo comportamento. Talvolta, una persona che assiste alla violenza psicologica si rende conto della gravità della situazione, sente di non poter accettare moralmente che fatti tanto gravi possano accadere sotto i suoi occhi senza intervenire. Le conseguenze della violenza psicologica si riperquotono sulla famiglia, sui figli, non è cosa da poco. Avvelena le esistenze. Ma l’agire a difesa della persona vessata comporterebbe esporsi a ritorsioni, anche gravi. Quindi diviene più facile mutare il paradigma: "non sono io che sono un vile e lascio accadere una violenza, è lui che si è meritato questo trattamento!"

Con questo meccanismo di adattamento diviene egli stesso un aggressore pronto, quantomeno, ad accettare di assistere passivamente, anche quando vi sarebbe un obbligo giuridico ad intervenire. E poco importa se la persona conosce il Codice Penale. I suoi occhi possono anche vedere la violenza, ma è la sua mente a rifiutare la realtà.

Per questo i Magistrati dovrebbero non tenere in considerazione le testimonianze. Il più delle volte è un gruppo contro un singolo, quale verità potrebbero raccontare?

domenica 4 maggio 2014

Chi per primo occupa il campo di battaglia



Il Rugby, come il Calcio, è uno sport, ma è anche la sublimazione della guerra. Per consentire lo scontro in modo che vinca la migliore strategia, il campo di gioco viene delimitato, viene stabilito a priori il numero dei giocatori e tutta una serie di regole chiare e condivise. 

Le due squadre, i due schieramenti, si contenderanno la vittoria ad armi pari. 

Quindi qual è la migliore strategia? Non esiste in realtà la migliore strategia, ma esistono delle particolarità che comportano vantaggi e svantaggi. 

"In generale chi per primo occupa il campo di battaglia e si predispone in attesa del nemico, sarà in vantaggio. Chi invece raggiungerà il campo in un momento successivo e sarà costretto a correre per occupare le posizioni di battaglia, vi arriverà esausto. Perciò, chi eccelle nell'arte della guerra, costringe gli avversari a fare ciò che desidera, e non il contrario" - (Sun Tzu – Sun Pin, L’arte della Guerra – I metodi militari, commento di Ralph D. Sawyer, Neri Pozza Editore, 2001, Vicenza). 

Tradotto in un contesto lavorativo questa massima indica che il collega che abbiamo trovato quando siamo stati assunti, quello che ha una maggiore anzianità di servizio, che conosce meglio i luoghi, le procedure, le persone che lavorano nello stesso reparto, ha un vantaggio territoriale: ha occupato prima di noi il campo di battaglia. Quindi giocherà in difesa, sfruttando la posizione conquistata in attesa del nemico. 

Talvolta quella posizione, in realtà, il collega esperto non l'ha conquistata, ma gli è stata concessa perché lui la difenda, in nome e per conto di un gruppo di appartenenza.

A differenza del Rugby o del Calcio, la situazione nei luoghi di lavoro è asimmetrica, e chi viene assunto per ultimo deve attendersi di dover disputare con persone che agiranno sfruttando le conoscenze, i favori fatti in passato, le amicizie, le compiacenze incrementate negli anni, l'appartenenza ad un territorio ove possono muoversi con maggior sicurezza.

Non perché ci si debba fare la guerra ad ogni costo, ma il voler utilizzare delle attrezzature diverse, nuovi software, una maggiore precisione nel portare a termine i propri compiti, nello svolgere le proprie mansioni, potrebbe innescare rivalità, antagonismi, conflittualità sistematica. L'altro potrebbe percepire l'innovazione come un tentativo di sottrargli potere.

sabato 3 maggio 2014

Esiste una discrepanza enorme




Il Dr. Heinz Leymann ha sostenuto in passato che, dopo i suoi studi sulle relazioni conflittuali attuate nei luoghi o per motivi di lavoro, si è accesa fin da subito un’ampia discussione. Il problema era inquadrare questo nuovo ambito di ricerca con un nome che potesse identificarlo. Anche se può sembrare un aspetto marginale, in ambito scientifico non lo è.

Così diversi gruppi di ricerca hanno scelto una terminologia diversa a seconda se la conflittualità poteva essere attuata in ambito scolastico, lavorativo o militare. In Inghilterra ed in Australia prevalse il termine mobbing in tutte e tre questi ambiti sociali. Negli Stati Uniti e nel resto d’Europa il termine bullismo è ancora usato per quanto riguarda situazioni scolastiche, mentre la parola mobbing identifica la sola conflittualità nel luogo di lavoro. In ogni caso si è comunque sviluppata altra terminologia per indicare il conflitto interpersonale perpetrato con la strategia delle sistematiche persecuzioni, psichiche e morali.

Anche il Dr. Leymann non ha contrastato questo sviluppo disordinato, perché riteneva più importante l’iniziativa volta ad introdurre nuove aree di ricerca. Non era quindi fondamentale unificare il linguaggio, ma permettere l’avvio di una profonda analisi dei comportamenti umani per lo più legati al narcisismo patologico.

Grazie al lavoro della Dr. Marie-France Hirigoyen è emersa la stessa conflittualità anche in ambito familiare e, talvolta, questa conflittualità la chiamiamo impropriamente mobbing in mancanza di un termine più pertinente per le dinamiche di potere che avvengono nelle mura domestiche.

Per avere un’idea, questo è avvenuto negli anni ottanta e novanta del secolo scorso.

Ora siamo nel 2014 e molte cose sono cambiate.

Questa riflessione trae spunto dalle molteplici iniziative che vengono intraprese per divulgare questi aspetti della società. Oggi sono numerosissimi gli incontri, le conferenze, i seminari di studio, i convegni, le giornate di approfondimento ove la conflittualità interpersonale è l’argomento maggiormente trattato dal super-esperto di turno regolarmente supportato da slide inguardabili; anche le pubblicazioni a stampa sono oramai molteplici. Ma non è più l'epoca della sola quantificazione.

In estrema sintesi, non è tutto oro quello che luccica.

Se prestate attenzione noterete un'enorme discrepanza tra le iniziative che vengono presentate nei convegni e seminari, ove la situazione appare sostanzialmente sotto controllo, e la realtà quotidiana dentro le fabbriche, negli uffici, nei mercati, nelle aziende di trasporto, nelle società di servizi, nelle banche, nelle scuole ed in ambito ospedaliero. Perché avviene questo?

Perché parlare di “mobbing” crea attenzione, prestigio professionale, visibilità, timore reverenziale, rispetto, riguardo. Perché è necessario tranquillizzare le persone. Perché, se a parlare è uno psicopatico che ha raggiunto la stanza dei bottoni, è utile presentare un'immagine patinata che arrivi a disorientare chi non ha forti convinzioni sull'argomento; che crede che il mondo sia sostanzialmente giusto, per cui se gli è capitato è perché deve aver certamente fatto qualcosa di male.

Controllate i temi che vengono trattati, illustrati. Sono dati statistici? Sono diagrammi a torta ove si parla di percentuali di popolazione? Sono diagrammi cartesiani ove è riportata solo l’incidenza del fenomeno riscontrato con ampi e particolari studi che hanno richiesto anni di lavoro di una moltitudine di cervelli? Oppure si descrive un caso concreto, con le iniziative del mobber e della vittima, con l'esemplare sentenza di condanna del Giudice, con le indagini della magistratura o il risarcimento del danno?

Domandatevi che cosa è stato fatto in concreto per tutelare i lavoratori. Quanto è realmente utile a contrastare la violenza e quanto è solo immagine, propaganda.

Non siamo più negli anni ’80 del 1900. Ora la comunità sociale chiede azioni concrete di tutela. L’esistenza di questa forma di violenza è oramai certa. E’ il momento di iniziare a contrastarla per il bene dell’intera comunità. Dei dati statistici, delle persone che desiderano il momento di gloria di fronte ad una platea di persone interessate, possiamo fare tranquillamente a meno.

venerdì 2 maggio 2014

Gli amici che amici non sono




Quando si decide di reagire ad un tentativo di assoggettamento indebito, nello stesso istante ci si espone alle ritorsioni. Fino a quel momento il perverso ha solo lasciato intendere cosa avrebbe potuto fare a nostro danno, ma nel momento in cui gli abbiamo detto che noi non ci saremmo piegati, per lui è guerra dichiarata. Ed in guerra le informazioni sul nemico sono preziosissime.

Sun Tzu, Generale cinese del 500 a.C. ha detto: “Il generale esperto crea situazioni grazie alle quali non potrà essere battuto, e non si lascia sfuggire alcuna occasione di porre in condizioni di inferiorità il nemico – Il mezzo con cui i sovrani illuminati ed i sagaci generali agiscono, vincono e si distinguono tra le masse è la conoscenza anticipata dei fatti” (Sun Tzu – Sun Pin, L’arte della Guerra – I metodi militari, commento di Ralph D. Sawyer, Neri Pozza Editore, 2001, Vicenza).

In altre parole ci dobbiamo attendere che i nostri amici, anche coloro di cui non dubiteremmo mai, potrebbero passare informazioni sulla nostra strategia di difesa.

Lo so, fa male pensare che la realtà sia così terribile. Ma quando questi eventi si verificheranno sarà ancora peggio sentirsi traditi, abbandonati.

Si deve tenere conto che l’aggressore psicopatico non ha alcuna remora morale. Egli percepisce il conflitto interpersonale come un evento del tutto normale nella sua esistenza; gli è utile per trovare un minimo di equilibrio, per scaricare la violenza ed apparire sereno, brillante, intraprendente, altruista. Ed agisce secondo schemi dettati dalla pura razionalità. Per cui, dopo averci isolato, farà in modo di comprare o ricattare una qualche figura a noi vicina, delle poche rimaste, per ottenere quelle informazioni che gli permettano la conoscenza anticipata dei fatti.

Considerazione importante: l’aggressore farà di tutto per vanificare le nostre iniziative e compromettere le nostre alleanze prima di compiere l’azione decisiva. E spesso, l’azione decisiva, è rivolta a ciò che ci è più caro.

Quindi le informazioni su cosa intendiamo realmente fare per tutelare la nostra dignità, il nostro prestigio professionale, il nostro posto di lavoro, non devono trapelare mai. Anzi è necessario fingere una qualche grave ingenuità per convincere il nostro avversario che siamo allo sbando, che non abbiamo risorse, né morali né economiche. Ci deve credere totalmente incapaci e noi faremo in modo, nel tempo, di rafforzare le sue convinzioni. Perché non è importante vincere una singola battaglia; l’importante è vincere la guerra.

Allo stesso tempo dobbiamo nascondere e rendere inattaccabili le persone e le cose a cui teniamo di più. Ed una delle tattiche più efficaci è quella di offrire un falso bersaglio.

Raccontiamo che il progetto a cui teniamo di più sta per essere completato. Raccontiamo che la cosa che più ci sta a cuore è la nostra carriera professionale e che, della famiglia, in fondo, non ci interessa nulla, perché abbiamo anche un'amante. 

Oppure: raccontiamo che soffriamo terribilmente la solitudine, che passiamo le ore davanti al televisore, che non abbiamo affetti, che più nessuno ci saluta. Raccontiamo che ci siamo rivolti a decine di associazioni ma, comprensibilmente, ci hanno messo alla porta, allontanato. E’ esattamente quello che il nemico si aspetta di sentire. E’ esattamente il vicolo cieco dove ci sta spingendo, ma che noi non imboccheremo mai.