venerdì 27 dicembre 2013

Mai reagire alle provocazioni



In certi ambienti di lavoro esiste un clima relazionale pessimo, per lo più dovuto alla strategia di leadership di personalità caratterizzate da un forte narcisismo. Anziché favorire il raggiungimento dei risultati, viene incentivata la competizione negativa, l’affermazione personale. In questo contesto si creano antagonismi feroci, impossibili da percepire per chi osserva le dinamiche dall’esterno. 

Le persone di valore che si ritrovano a dover operare in un simile ambiente subiscono spesso provocazioni. E’ una tecnica basata sulla comunicazione malevola, indirizzata a far reagire in modo scomposto, impulsivo, la persona individuata come bersaglio. In questo modo chi reagisce alzando la voce, sbattendo le porte, gettando a terra oggetti o altro, finisce per apparire come colui che non è capace, che non sa lavorare in una squadra, che non è all’altezza del compito affidatogli. 

Facciamo un esempio. Due impiegate allo stesso livello, quindi senza alcun vincolo di subordinazione, si incrociano in un corridoio di una qualche struttura pubblica. 

Anna domanda a Paola: “Per completare il lavoro che devo consegnare tra quindici giorni ho necessità di una copia della Deliberazione XVI dello scorso anno. Hai un’idea di come posso fare per averla in tempi brevi?” 

Paola risponde ad Anna: “In Archivio, al secondo piano, lì c’è la raccolta completa di tutte le Deliberazioni degli ultimi cinque anni”. 

Anna replica: “Al secondo piano hai detto? Ma non c’è nessun Archivio al secondo piano”. 

Paola: “Si Anna. Vai in fondo al corridoio ed apri l’ultima porta a sinistra. E’ una grande stanza dove troverai la sezione con le Deliberazioni ...”. 

Anna: “Ma questa stanza è aperta? Possono entrare tutti? Devo chiamare qualcuno per farmi cercare questo documento?”. 

Paola: “Non c’è un addetto e la stanza è sempre aperta ...”. 

Anna: “Ma com’è possibile? Un Archivio con documenti così importanti non viene nemmeno protetto con una porta chiusa? Vedrai che la chiave non c’è. Sicuramente l’avranno tolta e non potrò entrare”. 

Il dialogo è puramente inventato, ma è importante riconoscere lo schema della comunicazione. 

Paola risponde sempre e con precisione alle domande di Anna, ma la collega non solo non la ringrazia per la disponibilità, ma continua a mettere in discussione le sue affermazioni ponendo altre domande. Anna replica ogni volta come se le informazioni di Paola fossero incomplete, inverosimili; se non assurde quantomeno approssimative. E tutto questo genera insicurezza in Paola.

E’ una strategia comunicativa realizzata ad arte per destabilizzare l’equilibrio dell’altra. 

Il vero scopo di Anna non è ottenere un’informazione per reperire rapidamente un documento necessario al prosieguo del suo lavoro; lo scopo di Anna è mettere in difficoltà Paola facendola sentire inadeguata. 

Nella realtà questi scambi verbali vengono associati, nella quasi totalità delle volte, ad una comunicazione non-verbale paradossale. Anna sorride ma solleva le spalle, annuisce ma si mostra infastidita con la sola espressione del viso ad ogni risposta di Paola, le parla come un adulto farebbe ad un bambino. 

Per Paola questo modo di fare risulta incomprensibile e la comunicazione non-verbale, marcatamente negativa, pesa molto di più di quella verbale. Mentre sta ancora cercando di illustrare bene un certo concetto viene incalzata con altre domande alle quali non può rispondere sinteticamente.

Non è facile evitare queste trappole emotive. Ma se riconosciamo questo schema è fondamentale non reagire impulsivamente. Non reagire impulsivamente mai. L’avversario lo possiamo sconfiggere con le sue stesse armi. Perché quando una strategia di guerra viene individuata, non è più una strategia.

domenica 22 dicembre 2013

La Dissonanza Cognitiva




E’ accaduto in tempi recenti e, probabilmente, accadrà di nuovo. Subito dopo un avvenimento che può essere classificato come “Maxi Emergenza” oppure come “Catastrofe” nella popolazione colpita si diffondono voci di ulteriori ed ancora più terribili eventi. 

Talvolta le autorità impegnate nell’emergenza si rivolgono ai media per tranquillizzare le comunità coinvolte; altre volte vengono diffusi comunicati minacciosi per reprimere iniziative dannose con il procurato allarme, il reato penale di chi diffonde false notizie allarmanti o diffonde riferimenti a pericoli inesistenti (articolo 658 Codice Penale). 

Ora sappiamo che, in concreto, si tratta di un fenomeno molto complesso ma quasi mai pianificato da menti perverse.

Il Dr. Leon Festinger, Psicologo statunitense, ha studiato il diffondersi di voci allarmistiche dopo una catastrofe naturale. Le sue ricerche hanno rivelato che le popolazioni coinvolte sviluppavano un pensiero orientato ad armonizzare eventi che avevano sconvolto le loro abitudini quotidiane e che avevano generato un forte smarrimento misto a terrore. 

Queste persone avevano trovato un modo per fronteggiare psicologicamente la situazione di grande contrasto. Avendo bisogno di mantenere ordine e significato nella vita ed avendo bisogno di pensare che si stavano comportando secondo le loro convinzioni ed i loro valori, non diffondevano voci in grado di diminuire la paura, ma preannunciavano, impressionate, ulteriori sconvolgimenti, e non per provocare nuovo terrore, ma per giustificare quello che già provavano. 

Il Dr. Leon Festinger ha descritto questa contraddizione con quella che è diventata famosa come “Teoria della Dissonanza Cognitiva”.

Chi interviene in emergenza, ovvero nelle prime ore dopo un disastro naturale, deve saper anche raccogliere informazioni tenendo conto che, le persone coinvolte, non sono in grado di rappresentare al meglio la realtà.

venerdì 20 dicembre 2013

Economia di Guerra



Economia di guerra significa adeguare il sistema economico di un Paese alle necessità della guerra. 

La decisione fondamentale che dobbiamo prendere in una condizione ove stanno esercitando contro di noi quella violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, psichiche e morali, attuata per motivi di lavoro, è se lottare o fuggire. E’ una decisione drammatica, sotto tutti i punti di vista, per cui va presa dopo aver attentamente ponderato tutte le opzioni; è una decisione che potrebbe condizionare il resto della nostra esistenza.

Analizziamo per il momento solo una delle due opzioni: supponiamo di decidere di affrontare il nemico. 

Quando il Re viene accerchiato da un esercito invasore, si chiude dentro le mura del suo castello, della sua roccaforte, ed organizza la resistenza. A suo vantaggio il Re ha che difende una struttura che conosce bene, che è stata costruita per questo scopo, che ospita acqua potabile da una sorgente naturale, che contiene magazzini per gli alimenti. La vita quotidiana della comunità viene comunque stravolta perché, chiuso il ponte levatoio, i contadini ed i pastori non potranno uscire ed attendere alle loro mansioni nei campi, non potranno raccogliere frutta fresca, grano, legumi, erba per gli animali, perché le priorità sono cambiate. Il Re dovrà organizzare la comunità per difendere il territorio. E poco importa che sia sempre stato contrario all’uso delle armi, poiché in guerra è sufficiente che uno solo dei due leader contrapposti sia aggressivo, l’altro dovrà per forza di cose adeguarsi allo scontro o sottomettersi.

Colui che pone l’assedio al castello ha interesse a conquistare con la forza le ricchezze dell’avversario. Ha lo svantaggio di dover provvedere a sistemare l’esercito in condizioni di fortuna intorno alle mura, a dover realizzare le macchine da guerra per cercare di demolire le difese avversarie, a dover procurare il cibo in un territorio non suo. E’ in una posizione difficile, quella di attacco, e per poterla sostenere le sue risorse devono superare di almeno tre volte quelle di chi si difende.

Che cosa succede se il Re nel castello, dopo un periodo di resistenza più o meno lungo, finisce le provviste? Il Re deve prendere l’iniziativa ed agire. Arrendersi, fuggire, rubare le provviste dell’assediante con una sortita fuori le mura, sono tutte opportunità da valutare. 

Che cosa succede se il Re che ha circondato con i suoi uomini la roccaforte, dopo un periodo di assedio più o meno lungo, finisce le provviste? Il Re deve prendere l’iniziativa ed agire. Ordinare un attacco disperato, oppure abbandonare il campo rinunciando alla conquista.

Cosa hanno in comune i due Re? Entrambi devono fare economia. Devono poter disporre di frecce ed archi in abbondanza, devono poter disporre di uomini in buona salute, devono poter disporre di cibo ed acqua, devono poter disporre di un abbigliamento ed una logistica in grado di confortare i combattenti. Quindi la parola d’ordine diviene “eliminare gli sprechi”. 

Lo stesso atteggiamento è necessario nelle moderne guerre nelle aule di giustizia. Il lavoratore vessato che ha denunciato il proprio aggressore deve considerare le maggiori spese per il Legale, per i Consulenti di parte, le spese mediche, per i bolli, per le telefonate, per le stampe, per le spedizioni, per l’autovettura, per le fotocopie, per le fonoregistrazioni. Quindi è necessario apprendere a gestire la spesa al supermercato, gli acquisti per l’abbigliamento, per le scarpe; perché non sarà più questione di vestirsi bene, in modo piacevole, ma dovremmo scegliere con l’idea di difenderci dal freddo. 

La guerra è guerra.

lunedì 16 dicembre 2013

I ragazzi di Agincourt




Frasi come “Questo è il posto migliore per vivere!”, oppure “Qui da noi le cose funzionano; abbiamo dei buoni amministratori”, oppure ancora “La nostra azienda è all’avanguardia per tecnologie ed organizzazione del lavoro, tanto che la concorrenza è molto lontana dai livelli che abbiamo raggiunto” sono frasi ad effetto che lasciano passare un messaggio: Noi siamo la gente migliore!


Perché chi ha potere utilizza questa forma di comunicazione? Perché in questo modo riesce a manipolare la mente degli uditori.

Se io sono un soldato di Napoleone ed ho scelto di andare in battaglia, in un certo qual modo non sono diverso dal soldato dello schieramento avversario. Potrei identificarmi con lui. Calpestiamo lo stesso fango, abbiamo entrambi una divisa, delle scarpe mal realizzate, un pasto garantito ogni giorno, un’arma da fuoco che funziona a volte si ed a volte no, ordini a cui ubbidire e la stessa paura di morire. Ma se sono un soldato di Napoleone sono io che combatto per una causa giusta, non lui. Sono io che appartengo all’Armata più forte del mondo, non lui. Sono io che sono guidato dal miglior stratega, non lui. 

William Shakespeare nell’opera Enrico V racconta il discorso che fa il Re la notte prima della battaglia contro l’esercito francese. 

Chi ha espresso questo voto? Mio cugino Westmoreland? No, mio bel cugino, se è destino che moriamo, siamo anche troppi e rappresentiamo una perdita già abbastanza grave, per la nostra patria. Se invece viviamo, meno siamo e più grande sarà la nostra parte di gloria di ciascuno. In nome di Dio, ti prego, non desiderare un solo uomo di più. Anzi, fai pure proclamare a tutto l'esercito che chi non si sente l'animo di battersi oggi, se ne vada a casa: gli daremo il lasciapassare e gli metteremo anche in borsa i denari per il viaggio. 
Non vorremmo morire in compagnia di alcuno che temesse di esserci compagno nella morte. 
Oggi è la festa dei Santi Crispino e Crispiniano; colui che sopravviverà quest'oggi e tornerà a casa, si leverà sulle punte sentendo nominare questo giorno, e si farà più alto, al nome di Crispiniano. Chi vivrà questa giornata e arriverà alla vecchiaia, ogni anno alla vigilia festeggerà dicendo: 'Domani è San Crispino'; poi farà vedere a tutti le sue cicatrici, e dirà: 'Queste ferite le ho ricevute il giorno di San Crispino'. Da vecchi si dimentica, e come gli altri, egli dimenticherà tutto il resto, ma ricorderà con grande fierezza le gesta di quel giorno. Allora i nostri nomi, a lui familiari come parole domestiche – Enrico il re, Bedford ed Exeter, Warwick e Talbot, Salisbury e Gloucester – saranno nei suoi brindisi rammentati e rivivranno. Questa storia ogni brav'uomo racconterà al figlio, e il giorno dei Santi Crispino e Crispiniano non passerà mai, sino alla fine del mondo, senza che noi veniamo ricordati. Noi pochi. Noi pochi e felici. Noi schiera di fratelli: poiché chi oggi verserà il suo sangue con me sarà mio fratello, e per quanto umile la sua condizione, sarà da questo giorno elevata, e tanti gentiluomini ora a letto in patria si sentiranno maledetti per non essersi trovati oggi qui, e menomati nella loro virilità sentendo parlare chi ha combattuto con noi questo giorno di San Crispino!

I suoi uomini sono inferiori di numero di cinque volte, ma il Re trasforma questo elemento di debolezza, in un punto di forza: la vittoria sarà nostra e verrà ricordata nei secoli proprio perché era estremamente difficile sconfiggere l’avversario. 

Il giorno dei Santi Crispino e Crispiniano non passerà mai, sino alla fine del mondo, senza che noi veniamo ricordati”.

Meno combattenti, maggiore la gloria che toccherà a ciascuno di noi. 

Una volta un Generale disse: “Tutti sono convinti che gli uomini dei reparti speciali al mio comando, sono alti oltre un metro e novanta. Non è vero. Non è così. Ma ogni Marines al mio comando è egli stesso convinto di essere alto più di un metro e novanta!”. E’ un modo per dire che l’esaltazione, ove fosse stata assente, era stata indotta.

Ed alcuni dei ragazzi che oggi sono nel periodo dell’adolescenza, vengono manipolati allo stesso modo, con argomenti di esaltazione simili. La squadra della mia città è l’unica vera squadra ed io mi identifico con i giocatori, qualunque gesto compiano. Perché sono vicini a me. Perché noi siamo la gente migliore. Perché gli avversari sono solo persone miserevoli. 

E la stessa cosa succede con quelli che frequentano lo stesso bar, circolo ricreativo, sezione locale di partito, palestra. Loro rientrano nella mia cerchia, sono vicini a me, oltre c’è una barriera invalicabile fatta da nemici da combattere, da “diversi” da picchiare ed umiliare. Perché non sono come me. 
Nel mio gruppo mi hanno insegnato che loro devono restare oltre il muro, ed io posso violare la Legge, ma non andrò mai contro le regole non scritte che vigono nel mio gruppo.

Assumere comportamenti come quello appena descritto da un senso di appartenenza rassicurante. Tutti i soldati che, come me, combattono nella stessa armata sono miei amici, mi proteggeranno o mi vendicheranno. Così i ragazzi vengono manipolati e, talvolta, scagliati contro obiettivi strategici per coloro che, queste forme di comunicazione, le padroneggiano.

domenica 15 dicembre 2013

Per i talenti, inginocchiarsi davanti ai potenti non serve



Ambiente di lavoro di fantasia. Immaginiamo un grande Istituto bancario in un Paese del Nord Europa. All’interno della struttura vi è una sezione che si occupa del credito alle aziende che operano nel mercato del turismo. Tale sezione è composta da trentacinque specialisti organizzati in modo fin troppo gerarchico: un Dirigente, quattro Capo Area e trenta Operatori del credito. Immaginiamo che Hans sia il Dirigente.

Ventidue anni di lavoro alle spalle ma mai un momento di eccellenza, Hans ha raggiunto una posizione di leadership arrampicandosi letteralmente sugli specchi. 

Non era uno studente brillante, anzi raggiungeva a malapena la sufficienza nelle materie tecniche ed in matematica, ha trovato all’Università un ambiente fortemente politicizzato che lo ha protetto. In pratica la sua smisurata ambizione non è mai stata supportata da vere qualità, quindi, quando ha potuto, ha barato per poter fare carriera, chiedendo protezione in cambio di favori ed abnegazione agli interessi nascosti di chi poteva favorirlo. 

Oggi Hans dirige questo settore strategico ma lui stesso percepisce di dover nascondere la sua sostanziale incompetenza.

Per poter blindare l’incarico prestigioso che gli è stato affidato ha deciso di valorizzare i quattro Capi Area scegliendo le persone più inaffidabili e mediocri dell’ufficio. Si è assicurato un supporto forte alla sua posizione di potere offrendo ricompense economiche, futuri incarichi prestigiosi, una formazione migliore, e quando non ha potuto utilizzare le lusinghe ha fatto intravedere di cosa è capace se vuole fare del male, suscitando paura. Contemporaneamente Hans ha costantemente mortificato le persone più volenterose e capaci che avrebbero potuto affermarsi, creando loro difficoltà ed intralci di ogni tipo, demoralizzandoli.

Hans è una persona mediocre, un arrampicatore sociale sempre attento a controllare il suo territorio, il suo regno immaginario. Egli solo deve emergere, deve poter raccogliere onorificenze. E quando, inevitabilmente, finisce per confrontare le sue capacità con una persona dotata di intuito, creativa, intraprendente, sicura di se, i suoi limiti diventano insopportabili. Così arriva a proiettare sull’altro tutte le percezioni negative che, invece, nascono da lui stesso. E viene dominato dall’invidia, dall’acredine.

Questo è quello che accade quando Aurora entra a far parte del gruppo. Intelligente, brillante, sempre sorridente, preparata, al contrario di Hans mette sempre le persone a loro agio ed è collaborativa. Così il Dirigente decide di cambiare tattica e cerca di sfruttare le capacità di Aurora per valorizzare se stesso. Per arrivare a ciò la invita a cena in un lussuoso ristorante in centro città, ove afferma di aver notato in lei la stoffa della persona vincente. Quindi si offre di valorizzarla se solo lei accetterà di modificare per qualche tempo il suo modo di fare, al fine di devolvere il suo lavoro a favore della carriera del Dirigente, che firmerà lui solo le sue relazioni.

In sostanza ad Aurora viene detto: riconosco che sei persona con enormi potenzialità, ma sono disposto a lasciare che ti affermi in questo ambiente solo se ciò porterà anche a me dei vantaggi, ed accetti queste condizioni.

Aurora è davanti ad un bivio, che fare?

Per i talenti, inginocchiarsi davanti ai potenti non serve, perché inizialmente Hans favorirà il raggiungimento dei risultati di Aurora ma, a lavoro concluso, si prenderà tutti i suoi meriti, e sarà lui che presenterà i traguardi raggiunti alla conferenza annuale, dove non mancherà di criticare aspramente la sua valida collaboratrice.

domenica 1 dicembre 2013

La registrazione non è una intercettazione





La Corte Suprema di Cassazione, sezioni unite penali, con la Sentenza n. 36747 del 24.09.2003, ed il Consiglio di Stato, sezione VI, con l’Ordinanza n. 3796 del 28.06.2007 hanno riconosciuto il principio che la registrazione fonografica di un colloquio svoltosi tra presenti, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, quantunque eseguita clandestinamente, costituisce una forma di memorizzazione di un fatto storico del quale l’autore può disporre legittimamente, anche ai fini di prova nel processo ai sensi dell’articolo 234 Codice di Procedura Penale. Per di più la registrazione fonografica ai fini di difesa da parte di un lavoratore impegnato in una conversazione non è un atto che richiede necessariamente il consenso dell’altro utente, lo si deduce anche dall’articolo 5, comma 1, della Direttiva 97/66/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15.12.1997, recepita con il Decreto Legislativo n. 171 del 13.05.1998.

Quindi è ammesso registrare quanto ci stanno dicendo, anche senza avvertire l'aggressore della registrazione fonografica in atto, ma resta comunque proibito:
  • partecipare ad una riunione di lavoro e far registrare le conversazioni da una persona presente ma che non partecipa attivamente alla discussione; 
  • registrare quanto viene detto in nostra assenza oppure al telefono; 
  • registrare quanto viene detto in nostra presenza se non partecipiamo attivamente alla discussione.

Appurato ciò, può accadere che la persona registrata possa disconoscere o non riconoscere davanti al Giudice il contenuto trascritto. Sono due cose diverse. 

Si può disconoscere la registrazione, ad esempio, provando che in quello stesso momento la persona registrata era, in realtà, in tutt’altro luogo, quindi la registrazione è falsa e non può produrre effetti. Ovviamente tale circostanza dev’essere provata.

Si può anche affermare che la conversazione è realmente avvenuta ma, le parole che si intendono pronunciate, in realtà sono altre o con un diverso significato.

In entrambi i casi al Giudice non viene preclusa la possibilità di esaminare e valutare, in autonomia, la prova prodotta (Corte Suprema di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 10430 del 08.05.2007).

Di recente, la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la Sentenza n. 12534 del 10.05.2019, ha confermato tale indirizzo giurisprudenziale.



giovedì 21 novembre 2013

Le Ancore



Dall'eternità naviganti invisibili mi stanno portando attraverso atmosfere strane, solcando mari sconosciuti. Lo spazio profondo ha albergato i miei viaggi che non finiscono mai. La mia chiglia ha rotto la massa mobile di iceberg risplendenti che cercavano di coprire le rotte coi loro corpi polverosi. Dopo ho navigato per mari di bruma che estendevano le loro nebbie fra gli altri astri più chiari della terra. Dopo per mari bianchi, per mari rossi che tinsero il mio scafo coi loro colori e le loro brume. A volte abbiamo attraversato l'atmosfera pura, un'atmosfera densa e luminosa che inzuppò la mia velatura e la rese fulgida come il sole. A lungo ci fermavamo in paesi dominati dall'acqua o dal vento. E un giorno - sempre inatteso - i miei naviganti invisibili levavano le mie ancore e il vento gonfiava le mie vele folgoranti. Ed era di nuovo l'infinito senza vie, le atmosfere astrali aperte sulle pianure immensamente solitarie.

Giunsi alla terra, mi ancorarono in un mare, il più verde sotto un cielo azzurro che io non conoscevo. Abituate al bacio verde delle onde, le mie ancore riposano sulla sabbia d'oro del fondo del mare, giocando con la flora contorta della sua profondità, sostenendo le bianche sirene che nei giorni lunghi vengono a cavalcare su di esse.

I miei alti e diritti alberi maestri sono amici del sole e della luna e dell'aria amorosa che li penetra. Uccelli che mai hanno visto si fermano su di essi e poi in un volo di frecce segnano il cielo allontanandosi per sempre. Io ho cominciato ad amare questo cielo, questo mare. Ho cominciato ad amare questi uomini … Però un giorno, il più inatteso, giungeranno i miei naviganti invisibili. Leveranno le mie ancore ramificate nelle alghe dell'acqua profonda, riempiranno di vento le mie vele folgoranti …

E sarà di nuovo l'infinito senza vie, i mari rossi e bianchi che si estendono fra altri astri eternamente solitari …


Pablo Neruda (1904-1973) Poeta e scrittore cileno – dal libro Fiume invisibile, SugarCo Edizioni, 1981, traduzione di Savino D’Amico

I ragazzi al primo impiego



Questo post è dedicato ai ragazzi, coloro che, intorno ai venti anni affrontano le prime esperienze lavorative. 

Il lavoro è soprattutto un mezzo per poter acquisire denaro, ma non solo. Il denaro è necessario per il nostro sostentamento, per poter avere un’esistenza indipendente, per poter appagare anche ambizioni personali, gratificanti, emozionanti come un viaggio, una vacanza, acquistare un’automobile, per poter realizzare una famiglia. Ma il lavoro è anche un modo per esprimere la nostra personalità, per dimostrare che abbiamo la stoffa, che siamo capaci di organizzare, di fare cose utili anche per chi verrà dopo di noi.

Intorno ai venti anni i lavoratori hanno una caratteristica preziosa: la creatività. 

Quando si raggiungono i quaranta anni solo alcuni mantengono la capacità di innovare abbinata all’esperienza. 

Il datore di lavoro che intende assumere personale nella propria unità produttiva deve in primo luogo fare una scelta: un giovane lavoratore/lavoratrice oppure una persona con esperienza. Sono due modi totalmente diversi di investire nel futuro della propria azienda. Se come datore di lavoro ho necessità di personale che dovrò poi formare per fargli svolgere una mansione altamente specializzata, è pacifico che mi rivolgerò ad un giovane; la sua freschezza mentale, la sua dinamicità abbinata al desiderio di investire sul suo stesso futuro sono le qualità che sceglierò, perché sono consapevole che l’addestramento sarà compito mio e dei miei collaboratori. Al contrario, se ho necessità di un lavoratore in grado di gestire anche situazioni difficili, dotato di capacità professionali che possono essere il frutto solo di anni di esperienza diretta, al quale devo affidare anche il coordinamento di altre figure professionali, allora sceglierò una persona non più giovanissima e con un nutrito curriculum.

Non ha senso, quindi, richiedere anni di esperienza ai possibili candidati, quando poi ho necessità di personale che necessariamente devo formare per farlo operare con attrezzature che non hanno mai utilizzato, oppure secondo procedure che non si insegnano a scuola.

Quando vi è una marcata illogicità tra l’esperienza che viene richiesta, il curriculum formativo che viene preteso, e l’opportunità lavorativa che viene eventualmente offerta, è bene fare molta attenzione ad un possibile tentativo di manipolazione. In altre parole è necessario non abbassare le difese psicologiche perché qualcuno potrebbe approfittare della poca esperienza per costringerci a fare cose nascondendoci la realtà oggettiva, esponendoci al pericolo o forzando la nostra percezione di rispetto per il prossimo. La fragilità di chi è in cerca di un primo impiego non deve essere un facile appiglio per individui senza scrupoli.

Un altro motivo perché vengono richiesti curriculum esorbitanti è la chiara volontà di far sentire non adeguati gli eventuali candidati. Ti chiedo la perfetta conoscenza di inglese, francese e tedesco, oltre a saper utilizzare tutta una serie di applicazioni informatiche, solo perché quando ti presenterai potrò fare l’espressione delusa e farti accettare una sostanziale dequalificazione rispetto alla tua preparazione, al tuo titolo di studio.

Mio personale parere è che, tranne situazioni mortificanti o pericolose, un lavoro vada comunque accettato quando si è molto giovani. Con quel denaro investo sul mio futuro. E trovare un lavoro, quando si ha già un lavoro, è molto più facile.

mercoledì 20 novembre 2013

Il silenzio è comunque un modo per comunicare




Premetto che questa storiella è completamente inventata.

Duemila avanti Cristo. Siamo nell’accampamento degli Achei, oltre la pianura. Una gruppo di eroi troiani, dopo aver tentato di sfruttare la notte chiara con un’incursione finalizzata ad incendiare le navi nemiche, sono stati catturati dagli uomini di Agamennone. 

Ulisse propone di salvare loro la vita ad una condizione: risolvere l’enigma che verrà proposto a due di loro in modo da dimostrare il valore dell’avversario con cui stanno combattendo e poi narrare la vicenda al ritorno in patria, a guerra finita.

I due troiani vengono così portati al centro dell’accampamento, vengono legate loro le mani dietro la schiena e distanziati di circa trenta metri. Gli viene proibito di comunicare tra di loro. Un eroe Acheo spiega che verranno distribuite loro delle piccole pietre colorate, nel contenitore che non possono vedere ci sono 6 pietre bianche ed 8 pietre nere. Verranno suddivise e distribuite nelle loro mani tutte le pietre ma di un unico colore; quindi o tutte e solo le 6 pietre bianche, oppure tutte e solo le 8 pietre nere. In questo modo ognuno dei due potrà contare il numero delle pietre che avrà ricevuto ma non ne potrà vedere il colore; in altre parole non potrà sapere se sono state distribuite quelle nere o quelle bianche. 

La prova per i due troiani consiste nell’individuare il numero esatto di pietre consegnate all’altro.

Così viene fatto e, dopo poco, Agamennone domanda per la prima volta: “Uno di voi due è in grado di dire il numero di pietre che sono state assegnate all’altro?”, ma entrambi restano in silenzio.

Dopo quattro domande identiche Agamennone non ottiene responso ma, alla quinta domanda, entrambi gli eroi troiani rispondono che sono in grado di affermare con certezza il numero delle pietre distribuite all’altro.

Indipendentemente dall’effettivo quantitativo e dalle modalità di come ci sono riusciti, per risolvere questo enigma al lettore è richiesto descrivere perché proprio alla quinta domanda di Agamennone entrambi i prigionieri sono in grado di svelare il numero delle pietre rispettivamente distribuite all’altro. 

Come ogni problema istruttivo, non è tanto importante arrivare alla soluzione, ma affrontare l’enigma con il ragionamento per superare le difficoltà. Il silenzio è realmente un modo per comunicare.

venerdì 15 novembre 2013

Il prepotente agisce per il suo pubblico





Durante la guerra, una delle prime cose che è necessario fare è individuare chi realmente comanda il nemico. 

Ci sono delle personalità che, per la loro stessa natura, tendono ad operare al di fuori delle regole di civile convivenza. Se possibile è necessario studiare ed analizzare il loro comportamento, perché tutto ciò ci potrebbe permettere di comprendere chi tira realmente i fili della vicenda. 

Una ulteriore personalità da tenere sotto controllo è quella del Prepotente.

Ambiente di lavoro di fantasia. Ad esempio un’azienda metalmeccanica di medie dimensioni. Il datore di lavoro si accorge che la sua società ha evidenti carenze di tipo organizzativo. 
La materia prima che arriva in magazzino è di ottima qualità ed anche i costi di approvvigionamento non sono eccessivi. Il processo di lavorazione è fatto da personale esperto e formato, che utilizza attrezzature di lavoro all’avanguardia, in uno stabilimento veramente confortevole. Il prodotto finito rientra perfettamente nelle specifiche di progetto e non è eccessivamente costoso. 

In tutto questo però pesa fortemente una marcata conflittualità interpersonale che si è sempre di più evidenziata negli anni, man mano che la società conquistava quote di mercato.

Tra il reparto produzione e gli uffici amministrativi praticamente non si parlano. I rispettivi dirigenti sono costantemente occupati a cercare di accaparrarsi i meriti e trovare colpevoli per gli errori commessi. Gli operai, chi più chi meno, la mattina varcano mal volentieri il cancello della fabbrica, e tra le linee di produzione serpeggia un generale malcontento. Ci sono stati anche tanti piccoli episodi che hanno prodotto incidenti sul lavoro; solo qualche giorno di assenza, nulla di grave, ma accadimenti che denotano strane distrazioni, inspiegabili negligenze che vengono considerate eventi sentinella.

Il datore di lavoro così, di fronte alla possibilità di veder crollare quanto faticosamente realizzato, decide di rivolgersi ad un consulente esterno. Si tratta di far riconsiderare l’intera organizzazione del lavoro, con l’evidenziazione dei pericoli presenti in azienda, i possibili rischi conseguenti, in funzione della probabilità dell’infortunio e della gravità delle lesioni, nonché indicare le eventuali criticità dovute all’abuso del ruolo delle figure dirigenziali.

Sei mesi dopo, il consulente presenta la sua relazione. Il vero problema che impedisce una ottimale organizzazione del lavoro è la presenza di personalità prepotenti che hanno raggiunto i ruoli dirigenziali più delicati. 

Per capire innanzi tutto chi è il dirigente prepotente è necessario precisare che la sua essenza non deriva dalla volontà di comandare, di imporre la propria volontà nei confronti dei subordinati, di mortificarli, umiliarli, traendo piacere dal sentirli in propria balia, al punto da toglierli la dignità. In realtà il dirigente prepotente non opera nell’interesse dell’azienda, ma per dare spettacolo al suo pubblico, che può essere composto dall’insieme dei fornitori, dal personale del consiglio di amministrazione, da altre figure esterne alla realtà produttiva.

L'essenza della figura dirigenziale prepotente è l'ostentazione della propria superiorità rispetto a tutte le regole della comunità sociale, di civile convivenza in una realtà lavorativa, di rapporti anche regolati dal diritto, da contratti di lavoro, da Leggi dello Stato. In sostanza il dirigente prepotente opera continuamente per esibire marcatamente, ostentare il proprio arbitrio. E la sua prova di potere sarà tanto più efficace quanto più risulterà agli occhi del suo pubblico in opposizione con i valori riconosciuti.

Che cosa dovrebbe fare il datore di lavoro di fronte ad una simile realtà? 

Valorizzare le persone realmente capaci e mettere i prepotenti nelle condizioni di non nuocere. Nell’interesse di tutti.

lunedì 4 novembre 2013

Solo una tecnica basata sulla dialettica


Pur avendo provato in modo razionale le nostre buone ragioni, spesso nelle aule di giustizia ci troviamo in difficoltà a dimostrare la nostra tesi in modo emotivamente convincente.

Come tecnica puramente dialettica è fatto notorio che, l’isolare la descrizione di un evento dal contesto nel quale è realmente avvenuto e dalla rete di rimandi documentali all’interno dei quali questo è inserito, permette alla controparte di negare qualunque avvenimento, finanche l’evidenza.

Se poi, al fine di comprovare che la persona che sostiene di aver subito la violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, psichiche e morali, non è un soggetto attendibile:
  • si provvede fin da subito a non accettare il quadro di riferimento proposto e ad avanzare ambiguamente dubbi sulle sue reali condizioni di salute psicofisica, disconoscendo la validità della patologia diagnosticata, anche quando questa è provata in modo innegabile;
  • si provvede, in modo velato ma costante, ad avanzare continuamente dubbi sulle sue precedenti condizioni di salute psicofisica e sulle capacità di inserirsi affabilmente in contesti lavorativi già strutturati, nonché sulla capacità di realizzare rapporti umani e professionali amichevoli;
  • si provvede a dissimulare sistematicamente le dinamiche di potere realizzate dalla personalità psicopatica che ha dolosamente esercitato la violenza, non evidenziando di proposito le azioni e gli atteggiamenti ove egli manifesta un senso grandioso di importanza, la sensazione che tutto gli sia dovuto, cioè la irragionevole aspettativa di trattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative, il prendersi il merito del lavoro e dell’impegno degli altri, scaricando la colpa dei propri errori, un operare sistematicamente lo sfruttamento interpersonale, cioè un usare gli altri per raggiungere i propri scopi, un mirare al potere per soddisfare interessi difficilmente riconducibili alla realizzazione degli scopi dell’organizzazione, così da dare spazio, sfruttando le risorse degli altri, ai propri obiettivi senza tener conto delle legittime prospettive altrui, invece di delegare, il gestire tutto nei minimi dettagli prendendo il sopravvento ed imponendo il suo personale sistema di valori e la sua personale visione del mondo, restando insensibile al costo che tutto questo comporta emotivamente per gli altri;
  • si provvede a realizzare una ricerca ossessiva di qualunque, anche minima, imprecisione nelle esposizioni raccolte dalla persona offesa, per poi, prendendo spunto da ogni minimo “errore” commesso dall’esaminato nel corso dei suoi racconti opportunamente indotti in modo ripetitivo, proporre immediatamente la conclusione che, se il soggetto ha errato su un dettaglio, nulla garantisce che non abbia mal riferito anche su tutto il resto, così da dissimulare l’evidente sproporzione tra l’entità dell’eventuale inesattezza individuata e le conclusioni che, partendo da essa, sono state tratte;
  • si provvede a raccogliere informazioni sugli eventi riportati dal soggetto vittima della violenza, prevalentemente però da persone favorevolmente disposte nei confronti di chi, la violenza, l’ha dolosamente esercitata, oppure da individui in qualche modo condizionati, influenzati dalle circostanze e preoccupati per le possibili conseguenze future che eventuali dichiarazioni inopportune potrebbero cagionare;
  • si provvede ad amplificare ad ogni opportunità le affermazioni sincere della persona offesa, in modo da esagerare gli eventi rendendoli così ancora meno credibili, poiché gli eventi che una personalità psicopatica perversa è in grado di realizzare per raggiungere una posizione di leadership sono illimitatamente illogici, irrazionali, quindi per loro stessa sostanza poco credibili;
  • si provvede a non manifestare assolutamente che la personalità psicopatica perversa nelle vicende narrate e nella documentazione presentata dalla persona offesa, rifiuta le critiche o, comunque, reagisce ad esse con rabbia, anche quando sono realistiche, incolpa gli altri e non sa ammettere errori o debolezze personali, si mostra sostanzialmente incapace di introspezione psicologica e di apprendere dall’esperienza emozionale e sociale, trae piacere da comportamenti, atteggiamenti ed emozioni che non sono piacevoli per la maggior parte delle persone, e da comportamenti dannosi agli altri (comprendenti danni fisici, violenze, danni morali, impedimenti di ogni tipo al benessere altrui, ed inoltre alcune forme di crudeltà diretta o indiretta come le calunnie e le dicerie malvagie);
  • si provvede, al contrario, ad avanzare continuamente dubbi sull’effettiva ostilità dei fatti accaduti, fatti che tipicamente per loro natura si prestano ambiguamente, per conveniente scelta di chi esercita la violenza, a poter anche essere interpretati in modo neutro o, addirittura, benevolo;
  • si provvede ad avanzare continuamente dubbi in merito ai motivi che hanno indotto la persona offesa a richiedere giustizia;
  • si provvede ad enunciare eminenti citazioni giurisprudenziali ed autorevoli indicazioni bibliografiche, tutte opportunamente orientate nella medesima direzione, ed antitetiche rispetto alle asserzioni innegabili che la persona offesa ha proposto in quanto obbligata, contro la sua stessa volontà, a dover sostenere una tesi oggettivamente difficile da illustrare;
se si ha successo almeno in parte in queste arti comunicative, si riesce a raggiungere un primo, determinante obiettivo: l'indebolimento del consenso del Magistrato che abbia già esaminato la tesi accusatoria quando questa riguarda una violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, psichiche e morali, realizzata per motivi di lavoro.

Così, una volta insinuato il seme del dubbio, circa la realtà dei fatti narrati da chi ha subito tale violenza, si può proporre, con professionale neutralità, una sostanzialmente diversa chiave di lettura in grado di sostituire il paradigma e dissolvere tutti i dubbi e le incertezze ingannevolmente concretizzate. In alternativa, all’occorrenza, si può anche ripiegare su una generica motivazione che evidenzi che le prove complessivamente acquisite, alla luce di quanto ricostruito, non consentono di trarre conclusioni certe.

E’ altamente probabile che il Magistrato, di fatto sorpreso quanto disorientato, finirà per rifiutare inconsciamente le dinamiche di potere descritte dalla persona offesa, per convincersi della irrealtà della tesi accusatoria. Pertanto lo si indurrà ad accettare quanto ad arte rimodellato e, convinto suo malgrado dell’inutilità dell’azione penale, egli firmerà l’atto di rigetto voluto.

domenica 3 novembre 2013

Quando sopportiamo la sofferenza



Quand’è che diamo il meglio di noi stessi? Quando sopportiamo la sofferenza, il disagio, la solitudine, le aggressioni delle persone prevaricatrici, l’arroganza diffusa? 

Quand’è che le ferite della persona che credevamo ci amasse smettono di farci male? Quando ci capita di fare cose che non credevamo di essere in grado nemmeno di affrontare?

Quando abbiamo un sogno. Quando portiamo avanti i nostri valori per vederli affermare, il nostro ideale.

La speranza ci porta a non dare peso alle difficoltà. Ci porta fuori della realtà quotidiana fatta da piccole e grandi ingiustizie, dallo squallore che ci hanno organizzato contro. 

Immaginate la differenza che c’è tra l’essere un uomo o una donna. Una donna può generare una vita. Far crescere i propri figli nel migliore dei modi è già un obiettivo da riempire completamente venti anni della propria esistenza. Per un uomo questo è più sfumato. 

Ci sono persone poi che hanno dedicato la loro vita al Teatro, che hanno scritto brani musicali indimenticabili, che hanno fatto della ricerca il loro pane quotidiano, che hanno portato l’assistenza medica o l’istruzione dove non c’era nulla. Queste persone erano e sono ripagate dal fatto di poter operare con passione in qualcosa in cui credevano e credono ancora, di poter esprimere liberamente la loro creatività. 

Hanno sopportato la sofferenza? Certo che lo hanno fatto. Ma non lo hanno sbandierato. Hanno vissuto con dignità anche i momenti più terribili, senza dare spettacolo. 

A mio modo di vedere queste persone non hanno mai ambito al denaro. Ed avrebbero operato allo stesso modo, sia in tempi di crisi, sia di prosperità economica. Sono queste le persone che hanno costruito e ricostruito questo nostro Paese, non coloro che vanno in cerca dei mezzi di comunicazione di massa per poter rilasciare dichiarazioni ed ottenere una visibilità solo fine a se stessa.

sabato 2 novembre 2013

Lavoratore non più idoneo




L'inidoneità del lavoratore a svolgere determinate mansioni non abilita il datore di lavoro a licenziare, ma solo ad utilizzare il dipendente in mansioni compatibili con le residue capacità e in tale caso grava sull'imprenditore l'onere di dimostrare l'impossibilità di un'altra attività riconducibile alle mansioni assegnate o ad altre equivalenti.

Neppure il consenso delle parti ha rilevanza ai fini della deroga al principio, atteso che l'articolo 2103 Codice Civile, che tutela la professionalità del prestatore di lavoro, nonché il diritto a prestare l'attività lavorativa per la quale si è stati assunti, o si è successivamente svolta, vietandone l'adibizione a mansioni inferiori, che è norma imperativa e quindi non derogabile nemmeno tra le parti, come sancisce l'ultimo comma della stessa, prevedendo che "ogni patto contrario è nullo" (Suprema Corte di Cassazione, Sezione Civile, Sentenza n. 1471 del 22.01.2013).


giovedì 31 ottobre 2013

Vale sempre la prima impressione?





Ci sono persone che troviamo immediatamente simpatiche, altre attraenti, per altre ancora riconosciamo in loro quella sensibilità o semplicità che ce le rende immediatamente amabili, piacevoli.

E’ solo la prima impressione, possiamo fidarci?

A mio parere, nella maggioranza dei casi, la prima impressione è affidabile.

Ogni essere umano comunica in continuazione, anzi non possiamo non comunicare. Comunichiamo chi siamo da come ci vestiamo, da come abbiamo tagliato i capelli, da come abbiamo valorizzato il nostro viso; comunichiamo soprattutto con il linguaggio del corpo, con il movimento degli occhi, con le espressioni del viso, con i gesti delle mani, con il muovere le gambe.

Questa forma di comunicazione è innata in noi. La attuiamo, così come la percepiamo negli altri. In generale la comunicazione non verbale veicola le emozioni ed è prevalente sulla comunicazione verbale che, primariamente, veicola informazioni. 

Quindi se dico che il cibo che sto mangiando è particolarmente buono ma, al contempo, piego verso il basso gli angoli della bocca, il mio interlocutore percepirà una comunicazione disarmonica, paradossale. E nel dubbio darà la prevalenza alla comunicazione non verbale (il cibo non è buono, ma sto fingendo che lo sia).

Questa forma di comunicazione ambigua, paradossale, è particolarmente pericolosa soprattutto se attuata nei confronti dei bambini al di sotto dei cinque anni. Il bambino “sente” che c’è qualcosa che non va se la mamma gli parla con tono amorevole ma non lo stringe a se, non gli fa sentire calore umano.

Quindi, poiché non dipende da fattori culturali, possiamo quasi sempre fidarci della prima comunicazione non verbale, del primo linguaggio del corpo che vediamo in una persona, in definitiva della prima impressione.

Ma è una regola che non vale sempre.

Bisogna sempre lasciare un piccolo margine al timore, al dubbio, perché ci sono individui che sono abilissimi nel mostrare fin da subito un’immagine ultra positiva di loro stessi, che sanno fingere senza lasciar trapelare la minima incertezza, la minima indecisione. Fa parte di una strategia seduttiva molto più ampia, che non è possibile percepire subito. Una strategia orientata a far sottomettere un poco alla volta il suo interlocutore, una strategia subdola capace di svuotare progressivamente le sue energie, la sua capacità di ribellione, la percezione stessa dell’annientamento emotivo, dell’isolamento. E sono quelli che diventano pericolosi quando ti accorgi che cosa ti stanno facendo, come ti hanno condizionato.

Al contrario in amore, oppure ancora di più nell’amicizia sincera, la percezione spontanea di simpatia, di calore umano, di desiderio o di affetto, non muta nel tempo.


mercoledì 30 ottobre 2013

Codice di Procedura Penale - Opposizione all’archiviazione






L’articolo 408 del Codice di Procedura Penale in vigore nella Repubblica Italiana così recita:

1. Entro i termini previsti dagli articoli precedenti, il Pubblico ministero, se la notizia di reato è infondata, presenta al Giudice richiesta di archiviazione. Con la richiesta è trasmesso il fascicolo contenente la notizia di reato, la documentazione relativa alle indagini espletate e i verbali degli atti compiuti davanti al Giudice per le indagini preliminari.

2. L’avviso della richiesta è notificato, a cura del Pubblico ministero, alla persona offesa che, nella notizia di reato o successivamente alla sua presentazione, abbia dichiarato di volere essere informata circa l’eventuale archiviazione.

3. Nell’avviso è precisato che, nel termine di dieci giorni, la persona offesa può prendere visione degli atti e presentare opposizione con richiesta motivata di prosecuzione delle indagini preliminari.


Sul terzo comma di questo articolo ci sono due precisazioni da fare per chi vuole oppure è costretto a seguire in prima persona il prosieguo dell’iniziativa penale.

La prima precisazione riguarda il termine di dieci giorni. In realtà la persona offesa dal reato può comunque presentare un Atto di Opposizione fino a quando non sia intervenuta la decisione del Giudice per le indagini preliminari. Quindi il termine dei dieci giorni è una garanzia per la persona offesa e non un limite. In altre parole il Giudice per le indagini preliminari non può prendere una decisione prima di dieci giorni, dando modo alla persona offesa di studiare il fascicolo e provvedere a motivare l’eventuale opposizione. (Corte Suprema di Cassazione, Sezione II penale, Sentenza n. 15888 del 08.05.2006).

La seconda precisazione riguarda la possibilità di presentare opposizione solo se contenente una richiesta motivata per la prosecuzione delle indagini preliminari. Anche in questo caso, se non si intende richiedere la prosecuzione delle indagini preliminari ma si vuole impedire una ingiusta archiviazione, è possibile presentare un Atto di Opposizione scritto sulla base della Sentenza Corte Costituzionale n. 95 del 11.04.1997 che riporta: “L’opposizione motivata dalla incompletezza delle indagini del Pubblico ministero non è peraltro l’unico strumento per contrastare la richiesta di archiviazione: nelle situazioni in cui le indagini siano state esaurientemente espletate, ovvero il titolo del reato o le concrete modalità di realizzazione del fatto rendano non necessaria alcuna indagine, la persona offesa può egualmente presentare Atto di Opposizione, indicando motivi volti a dimostrare la non infondatezza della notizia di reato. Ove le argomentazioni della Persona Offesa siano convincenti, il Giudice deve comunque fissare l’udienza in camera di consiglio a norma dell’articolo 409, comma 2, peraltro espressamente richiamato dall’articolo 410, comma 3, Codice Procedura Penale, così assicurando alla persona offesa la medesima tutela prevista in caso di opposizione volta a ottenere la prosecuzione delle indagini preliminari”. (Corte Costituzionale, Sentenza n. 95 del 11.04.1997)

domenica 27 ottobre 2013

Fingere un falso evento per giustificare una reazione violenta





Nel marzo 1962 un’organizzazione governativa con sede a Washington ricevette un rapporto con una serie di ipotesi militari atte a giustificare un intervento armato su Cuba. Nel documento veniva ipotizzata una strategia per creare ad arte un “incidente” da poter poi utilizzare come pretesto per una incursione militare, in modo da mascherare alla comunità internazionale le vere ragioni dell’operazione.


Uno dei possibili scenari veniva grossomodo così descritto.

Bisognava acquisire i codici di navigazione aerea di un volo charter civile temporaneamente predisposto per la missione, in modo da duplicarli su un secondo aereo simile, destinato alla dismissione ma riverniciato e riutilizzato. Il volo charter avrebbe opportunamente dovuto decollare da un aeroporto sulla costa del Golfo del Messico con rotta in un paese centroamericano, in modo da predisporre l’attraversamento dello spazio aereo di Cuba. Per i passeggeri era stata data l’indicazione di inventare una piccola associazione, un gruppo di studenti, una unione di imprenditori, un qualche insieme di persone aventi un interesse in comune, perché così vengono in genere predisposti questi voli non di linea.

Il piano era di far decollare gli aerei in modo che il primo tracciasse con il trasponder una rotta con il suo codice autentico, mentre l’aereo-ombra non avrebbe comunicato ai sistemi radar civili un suo proprio codice di navigazione perché a trasponder disattivato. Volando a bassissima quota sul mare oppure al di sotto di un altro aereo di pari dimensioni è possibile non lasciare una traccia evidente nei sistemi radar.

Le due rotte avrebbero avuto un punto di incontro nei cieli a sud della Florida. Al momento del ritrovo nel punto convenuto l’aereo-ombra sarebbe salito di quota ed avrebbe attivato il trasponder con il codice di navigazione dell’aereo civile, il quale, a sua volta, lo avrebbe spento in modo sincronizzato. L’aereo civile con i passeggeri a bordo avrebbe perso quota, quindi avrebbe utilizzato le stesse strategie di occultamento della traccia radar per raggiungere una pista ed atterrare. I passeggeri, in realtà persone con una falsa identità, sarebbero stati evacuati rapidamente.

A questo punto l’aereo-ombra avrebbe proseguito sulla rotta prestabilita per il volo charter. Giunto entro lo spazio aereo cubano l’equipaggio avrebbe segnalato un’aggressione da parte di una forza aerea ostile utilizzando le frequenze di soccorso internazionalmente codificate. Un istante prima di abbandonare il velivolo l’equipaggio avrebbe attivato un dispositivo di autodistruzione in modo da simulare un’esplosione anomala, quindi un attacco militare.
Iniziate immediatamente le ricerche dei possibili superstiti si sarebbe in realtà provveduto a recuperare l’equipaggio dell’aereo-ombra, per trasferirlo in un luogo sicuro, lontano da occhi indiscreti.

In questo modo l’atto di ostilità sarebbe stato annunciato alla comunità internazionale da una organizzazione civile in grado di monitorare il traffico aereo, e la classe politica dirigente avrebbe potuto cavalcare l’onda di indignazione per poi giustificare e rendere accettabile l’invasione militare. Fine del piano.

Verità storica nascosta per mezzo secolo? Descrizione di pura fantasia? Falso abilmente realizzato per vendere libri che parlano di astuti complotti mai realizzati? Non possiamo saperlo con certezza. In questo contesto ci interessa però trovare le analogie con quanto accade nei luoghi di lavoro.

Molti credono che una persona capace, intelligente, dotata di iniziativa, di buona volontà, onesta, corretta, non possa non affermarsi nel mondo del lavoro. E’ una falsa convinzione perché è basata sulla certezza di vivere in un mondo sostanzialmente giusto. Sappiamo tutti però, per esperienza personale prima ancora che per altro, che in tutte le comunità vi sono i narcisisti, gli invidiosi, le persone che soffrono di gelosie professionali, i perversi. Sappiamo anche che la coscienza del gruppo è diversa da quella dei singoli componenti, e che non necessariamente è migliore. Quindi in un contesto lavorativo la persona più capace, creativa, corretta, può benissimo divenire oggetto di violenza psicologica da parte del gruppo coalizzato contro di lei. E tra le strategie di attacco che dobbiamo temere c’è anche quella nella quale gli aggressori potrebbero organizzare un falso evento per giustificare una loro reazione violenta. Oppure per provocare l’adozione di un grave provvedimento disciplinare, suscitare una reazione emotiva di indignazione, oppure il licenziamento per giusta causa.

Questo non significa che dobbiamo continuamente temere un evento a noi ostile. Non tutti i luoghi di lavoro sono ambienti conflittuali, resta però una buona prassi quella di non offrire la giugulare a persone che potrebbero aver mostrato solo un’immagine amichevole di facciata, tanto per convincerci della loro amicizia. E che non aspettano altro se non il momento favorevole per attuare il loro piano.


domenica 20 ottobre 2013

L’enigma della motivazione che ha convinto Isabella di Spagna





Tutti sappiamo che Cristoforo Colombo è salpato ufficialmente da Palos con tre Caravelle il 3 agosto 1492, e nel gennaio dello stesso anno era stata riconquistata la città di Granada. Poiché per trovare le navi, selezionare l’equipaggio, ed allestire la spedizione è ipotizzabile un tempo di almeno otto settimane, con buona approssimazione Colombo è riuscito a convincere la Regina Isabella a finanziare e sostenere politicamente il suo tentativo di raggiungere le Indie con una rotta verso occidente, nel tempo di circa tre mesi. Quali argomenti può aver utilizzato?

La Regina Isabella ha appena affrontato una campagna militare per cacciare i Mori dalla penisola iberica. E’ riuscita nell’intento ma, muovere l’esercito, è sempre stato storicamente dispendioso. Quindi Colombo deve superare le resistenze di Isabella che, probabilmente, non ha nelle casse del suo regno quelle risorse in grado di sostenere una spedizione verso l’ignoto. Deve quindi trovare un argomento in grado di coinvolgere Isabella sul piano emotivo, posto che sul piano puramente razionale l’impresa è priva di qualunque garanzia.

Nelle più attendibili descrizioni del quadro storico che sono arrivate fino a noi sembra avere un ruolo di rilievo Papa Innocenzo VIII. Insieme ad un gruppo di banchieri ed armatori, il genovese Innocenzo VIII avrebbe finanziato l'impresa. Ma resta il fatto che Colombo riuscì sicuramente a convincere Isabella di Spagna a contribuire in modo significativo alla spedizione, perché addirittura in alcune opere Isabella viene raffigurata mentre cede i suoi gioielli a Colombo, i gioielli che in quel momento stava indossando.

Il navigatore ed avventuriero genovese in realtà convinse Isabella con il sogno.

Narrò alla Regina di una informazione raccolta nel suo girovagare, l’esistenza di una fonte d’acqua miracolosa in grado di ringiovanire il corpo. La fonte dell’eterna gioventù. Narrò che vi era un luogo ove gli indigeni che avevano raggiunto le soglie della vecchiaia si recavano per immergersi in un’acqua limpida, così da tornare al villaggio con il corpo straordinariamente rinvigorito, giovane, bello, sano.

Immaginate Isabella, forte, determinata, ma non più giovanissima. Immaginate il periodo storico, una società in pieno fermento. Immaginate la poca attendibilità delle informazioni che circolavano, senza un vero rigore scientifico, impregnate di convincimenti irrazionali, religiosi. Così Cristoforo Colombo promise ad Isabella di andare a cercare l’acqua che l’avrebbe resa per sempre giovane. Impossibile resistere.

Questa forma di comunicazione fa leva sulla reazione emotiva di chi ascolta. L’avventuriero non cerca di convincere la Regina cattolica con argomenti economici, politici o sociali. In fondo Isabella ha già potere, ricchezza, prestigio sociale, quindi qualunque argomento razionale inserito in questo contesto non avrebbe avuto una grande efficacia.

Può sembrare un espediente facile da individuare, ma anche nella comunicazione utilizzata nella nostra società occidentale vengono talvolta divulgate informazioni puramente irrazionali, ma che hanno una grande presa al livello emotivo. Perché sono esattamente le cose che siamo disposti a credere, ciò in cui vogliamo credere, in particolare perché abbiamo emotivamente necessità di convincerci che viviamo in un mondo sostanzialmente giusto. Questo significa che siamo inconsapevolmente portati a credere, il più delle volte, che chi subisce una forma di violenza psicologica in famiglia, in fondo deve pur aver fatto qualcosa di male per meritarsela. E se la vittima prova ad accusare con argomenti razionali le aggressioni subite da un uomo violento, quest’ultimo potrà difendersi utilizzando una comunicazione emotiva, di per se molto più convincente, quindi efficace.

Chi ha fatto un viaggio a Tenerife, isola delle Canarie ove il navigatore genovese fece approdo per rifornirsi prima di affidarsi all’oceano inesplorato, probabilmente è venuto a conoscenza della storia di un grande amore.

A Tenerife c’è una donna di una bellezza straordinaria, è stata sposata con un uomo che è stato ucciso durante un tentativo di insurrezione. Colombo approda sull’isola solo per fare rifornimento di viveri ed acqua prima di orientare le prue verso ovest, ma conosce questa donna e se ne innamora perdutamente, tanto da ritardare la partenza. La scoperta dell’America è avvenuta con qualche giorno di ritardo. Oppure l’episodio non è relativo al suo primo viaggio, perché a Tenerife raccontano che si è fermato tre settimane in più del previsto.


giovedì 17 ottobre 2013

Parassiti sociali nei luoghi di lavoro



Ripartiamo da questo fondamentale concetto: durante la guerra, una delle prime cose che è necessario fare è individuare chi realmente è a capo dello schieramento nemico

Non è affatto semplice perché nella violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, psichiche e morali, il burattinaio si nasconde e lascia che agiscano altri. 
Ci sono delle personalità che, per la loro stessa natura, tendono ad operare al di fuori delle regole di civile convivenza. Se possibile è necessario studiare ed analizzare il loro comportamento, perché tutto ciò ci potrebbe permettere di comprendere chi tira realmente i fili della vicenda. 

Una di queste personalità da tenere sotto controllo possiamo chiamarla il “Free Rider”.

La logica del Free Rider (scroccatore, parassita) è quella del comportamento illecito in cui l’estremo egoismo spinge l’individuo a ricercare sempre il massimo vantaggio, con conseguente azzeramento dei costi. Un comportamento puramente razionale volto alla massimizzazione dei benefici e finalizzato alla sola realizzazione dei suoi illegittimi interessi personali.

Immaginiamo, ad esempio, che in una piccola comunità ricreativa quale un Circolo delle bocce, i soci decidano di raccogliere denaro per far installare un impianto di ventilazione e condizionamento; il Free Rider sarà quel soggetto che non parteciperà economicamente alla colletta, perché sa benissimo che, dopo, potrà comunque beneficiare dell’innovazione senza sostenerne i costi.
Dall’esempio emerge che il comportamento tipico del Free Rider è basato su una logica opportunista. Lui non realizza nulla per sua iniziativa, sfrutta le strutture e le opportunità che altri hanno creato. Non si espone, non rischia in proprio, agisce da organismo parassita, un vero parassita sociale.

Le caratteristiche del “Mediatore criminale” descritte in un precedente post, e del “Free Rider” possono essere rappresentate dallo smisurato desiderio di affermazione nella comunità sociale. Sono soggetti che non hanno progetti professionali, disegni politici di innovazione, non propongono percorsi sociali ed economici innovativi, in grado di ammodernare e migliorare la società tutta, anzi sovente sono degli acerrimi conservatori. Poiché sono riusciti a raggiungere una posizione ove poter esercitare dinamiche di potere, per loro ogni cambiamento nasconde un’insidia, la possibilità che la nuova configurazione possa penalizzarli, favorendo qualcun altro. Per questo motivo tipicamente esercitano un ipercontrollo sulle persone e sulle situazioni.

Allo stesso tempo, com’è intuitivo, queste stesse persone disprezzano le utopie, i progetti avveniristici, l’integrazione sociale di culture diverse, gli sviluppi tecnologici, la comunicazione creativa finalizzata allo scambio produttivo di informazioni. Ostentano spregiudicatezza. 

Un’altra strategia di affermazione dei Free Riders consiste nell’insediarsi in organizzazioni prive di una loro storia documentata. In questo modo lo sfruttamento delle risorse a fini personali è più facile perché, tramite una studiata destorificazione degli eventi, è possibile riscrivere, rimaneggiare le origini, le tradizioni, le consuetudini, le esperienze maturate dal gruppo di lavoro. Per ottenere questo risultato è contemporaneamente necessario liberarsi dei collaboratori più esperti, quelli con più anni di servizio, isolare gli oppositori, mortificare gli antagonisti, inserire forze nuove non in grado di percepire il condizionamento, così da poter essere opportunamente manipolate anche contro i collaboratori più lavorativamente preparati, esperti.

Il Free Rider è sostanzialmente un manipolatore, da una rappresentazione di sé indipendentemente dagli eventi e dalle persone presenti, cerca di imporla per come lui percepisce la realtà, così riesce a sfruttare i rapporti sociali per autoconvincersi. Le relazioni che realizza, quando viene promosso in una posizione di potere, sono di tipo manipolativo. Sono relazioni incentrate sul fine, nemmeno tanto nascosto, di poter dominare gli altri, averli in pugno.

domenica 13 ottobre 2013

Sul perché tipicamente i narcisisti usano il discredito




L’obbiettivo delle calunnie, dei pettegolezzi, delle dicerie maligne, del discredito in generale è principalmente quello di impedire che gli altri si immedesimino, si identifichino con la persona individuata come bersaglio della violenza.

Se avete osservato come vengono accuratamente scelti i personaggi delle pubblicità televisive, avrete sicuramente anche notato che la casalinga che usa il detersivo migliore degli altri non è un sex symbol, non la vestono come una Bond-girl, non ha le unghie laccate o i capelli acconciati all’ultima moda. La scelta dei personaggi delle pubblicità sfrutta il potere di immedesimazione.

Io che ho appena finito gli studi e sto per entrare nel mondo del lavoro, possibilmente realizzando al contempo una famiglia, mi sentirò molto più simile ad un ragazzo/a con la mia stessa età, con il mio stesso linguaggio, con la mia stessa disponibilità di tempo, con il mio stesso modo di vestire e di comunicare. Quindi sceglierò il telefonino, l’automobile, le scarpe in base alle attenzioni che pongo in colui/lei che mi assomiglia, che è più inserito di me nel mondo del lavoro, che ha già formato una famiglia, anche se da poco.

Il Potere dell’Immedesimazione è un potere utilizzabile da chiunque. Il discredito mirato, quindi, serve ad impedire che qualcuno possa utilizzare questo potere.

Il discredito però serve anche a distrarre in modo subdolo, sfuggente, così da distogliere le capacità di analisi degli interlocutori dai veri problemi, dalle reali dinamiche di potere in atto, dando loro in pasto notizie paradossali, ambigue, ridicole, incoerenti, illogiche ed emotivamente coinvolgenti.

Quando un narcisista estremo utilizza questo tipo di comunicazione sta preparando il terreno ad un attacco. E’ un primo segnale che viene sì abilmente occultato ma che, in modo intuitivo, molti di noi hanno appreso a riconoscere.

Nella manipolazione perversa l’arrampicatore, il parassita, l’egoista smisurato, negano i loro veri obiettivi, non potrebbero fare diversamente, perché divulgare le loro perfide strategie e le loro smisurate ambizioni gli farebbero perdere il consenso sociale di cui hanno estrema necessità. Quindi raccontano una realtà costellata di menzogne e mezze verità, negando il conflitto nel modo più categorico, descrivendo ambienti di lavoro e relazioni interpersonali frutto solo della loro sfrenata fantasia. Un comportamento riconducibile alla malafede.

E’ certo che, il narcisista estremo che ha stravolto l’organizzazione del lavoro per ricavarne un vantaggio personale a scapito dell’interesse dell’unità produttiva, non andrà in giro a raccontare cosa ha combinato, anzi farà in modo di curare la propria immagine per apparire serio allo stesso modo di chi ha amministrato in modo coscienzioso, da buon padre di famiglia.

Colui che riceve l’insieme dei messaggi denigratori percepisce inizialmente elementi contraddittori, avverte una condizione di disagio perché riconosce la marcata ambiguità, la strumentale falsità. Successivamente poi avviene la presa di coscienza della fallita manipolazione perversa, del rifiuto che abbiamo finalmente posto al condizionamento, della ribellione ad una condizione di moderna schiavitù mentale. E’ questo il momento in cui l’aggressore ha necessità di amplificare la diffusione di maldicenze sul nostro conto, perché ora deve ostacolare la diffusione delle informazioni e, se non può raggiungere la certezza che riuscirà ad impedirci di informare, preferirà saturare tutti i canali comunicativi con il discredito, la calunnia, le maldicenze nei nostri confronti. Il narcisista perverso deve impedire ad ogni costo che la vittima risulti credibile, attendibile nelle sue accuse.

Questa strategia viene perpetrata nel tempo perché è estremamente difficile da ostacolare. Ad esempio, se ci accusano di avere una compagna o un compagno che ci tradisce, serve a ben poco sostenere con determinazione il contrario. Anzi è molto più probabile che la perversione altrui porti tensioni all’interno della coppia. Perché, a quel punto, ogni minuzia, ogni inezia risalterà ai nostri occhi, la stessa minuzia, la stessa inezia a cui non avremmo fatto caso in passato.


sabato 12 ottobre 2013

Perché utilizzare una Consulenza Tecnica





Nel Codice di Procedura Penale la Consulenza Tecnica e la Perizia sono considerate a tutti gli effetti mezzi di prova. 

E’ bene fin da subito fare una netta distinzione: la Consulenza Tecnica è richiesta dalle parti, mentre la Perizia è richiesta dal Giudice. 

Quando la persona offesa dal reato, oppure il Pubblico ministero, o anche l’Imputato, per poter sostenere le proprie ragioni hanno necessità di una valutazione tecnica, scientifica oppure artistica dei fatti accertati, possono ricorrere ad un Consulente, specialista nella materia. Allo stesso modo il Giudice, per eventualmente approfondire l’argomento trattato o per una eventuale valutazione ulteriore, può richiedere una Perizia ad un Perito da lui nominato, sempre specialista nella materia.

Al Consulente Tecnico, oppure al Perito, viene chiesto di valutare gli elementi di prova già acquisiti. Queste figure non hanno i poteri della polizia giudiziaria, quindi tecnicamente non svolgono indagini, ma descrivono l’evento sulla base della loro particolare competenza in materia, indicando conclusioni che, talvolta, possono essere controintuitive, oppure evidenziare elementi di reato in fatti che sembravano irrilevanti.

Se si decide di affrontare la battaglia tramite una denuncia alla Magistratura è bene richiedere la Consulenza Tecnica perché, l’accertamento della responsabilità penale, quando si deve affrontare la violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni, psichiche e morali, attuate per motivi di lavoro, richiede notoriamente il possesso di cognizioni tecniche, esperienza ed abilità metodologiche che, come non possono essere presunte nella persona del Giudice, così possono non essere proprie del Pubblico Ministero. La finalità nascosta della violenza perpetrata con la strategia delle sistematiche vessazioni è l’indebolimento delle difese psicologiche della vittima designata, quindi la manipolazione della sua volontà, così da privarla della sua identità culturale e sociale, per poi isolarla dalla comunità professionale e dalla collettività, il tutto tramite più azioni ed omissioni, talvolta singolarmente insignificanti, ma nell’insieme estremamente pregiudizievoli. Quindi la vittima di questa forma di violenza, di iniziativa dovrebbe preferibilmente richiedere quantomeno una Valutazione Medico Legale, in base a quanto indicato dalla Corte Costituzionale con la Sentenza n. 33 del 11.02.1999 che riporta: “La consulenza extraperitale è suscettibile di assumere pieno valore probatorio non diversamente da una testimonianza e che pertanto il Giudice non è vincolato a nominare un Perito qualora le conclusioni fornite dai consulenti di parte gli appaiano oggettivamente fondate, esaustive e basate su argomenti convincenti”.

E’ necessario dedicare molta attenzione a questa iniziativa, perché sovente nelle aule di giustizia è difficile ricreare il clima di ostilità che, al contrario, viene abilmente e subdolamente organizzato nel contesto lavorativo. Cosicché le aggressioni subite, ripetute ad un Giudice in un contesto totalmente diverso, in un clima ove la vittima viene colpevolizzata in modo strumentale, possano rendere effettivamente l’idea della gravità della violenza.