martedì 10 agosto 2021

Quello che ti prosciuga professionalmente





Questo è uno scritto che solo poche persone potranno comprendere fino in fondo, non perché tratta di chissà quale argomento complicato o astratto, non ci sono formule matematiche, ma solo perché è abbastanza raro fare esperienze di questo tipo nel mondo reale.

Julian è stato assunto da pochi mesi in un ufficio della pubblica amministrazione. Julian ha frequentato l’Università degli Studi, e si è laureato con il massimo dei voti, poi ha vinto il Concorso per l’assunzione a tempo indeterminato. Una volta assegnato al Dipartimento di Agraria, ha iniziato a lavorare con regolarità. Poiché la sede era abbastanza lontana da casa, dopo circa 5 anni ha fatto domanda ed ottenuto un trasferimento nel corrispondente Ufficio della sua stessa Regione.

Julian arriva nella sua nuova comunità lavorativa con un bagaglio di titoli ed esperienze di tutto rispetto, per cui gli vengono assegnati compiti adeguati alle sue capacità. Ma, in lui, c’è qualcosa di strano lavorativamente parlando.

Julian è sempre alla ricerca di incarichi complessi, ha come una estrema necessità di mettersi alla prova, di potersi misurare con i colleghi con molta più esperienza di lui, di poter stupire gli altri, di poter essere al centro dell’attenzione.

È difficile comprendere la reale motivazione di questo comportamento che, inizialmente, in molti giudicano in modo positivo. “Julian è molto preparato, si dedica con passione al suo lavoro”.

Però Isabel non è contenta di lavorare con lui.

Succede che, per una pratica che gli viene assegnata con l’istruzione di agire con urgenza, Isabel è costretta ad operare con Julian, sperando di poter ricevere autorevole collaborazione e vedersi semplificare il lavoro. Invece Julian assume un atteggiamento totalmente passivo. Se c’è da raggiungere una Fattoria a chilometri di distanza, Isabel è costretta a guidare per tutto il tempo. Quando arrivano, Isabel si mette al lavoro per i rilievi necessari, mentre Julian si intrattiene con i proprietari a parlare e socializzare. Isabel deve fare un lavoro di precisione praticamente da sola perché Julian è sempre a comunicare con qualcuno al telefonino.

Quando parlano, Julian si interessa al lavoro svolto ma non partecipa attivamente; di fatto raccoglie solo informazioni.

Al rientro in sede Isabel cerca di mettere in ordine gli appunti presi, per poter sviluppare poi il lavoro nei giorni successivi, Isabel è bravissima e svolge con precisione i suoi compiti, mentre Julian fa il giro dei colleghi per raccontare la giornata lavorativa, mostrando fotografie realizzate con il telefonino.

E lo stesso atteggiamento viene mantenuto nei mesi successivi. Isabel scrive Relazioni di iniziativa trasferendo su carta tutta la sua professionalità, Relazioni che Julian esamina e firma senza un vero reale contributo.

Spazientita da questo stato di cose, Isabel chiede a Julian di occuparsi di una parte del lavoro. Collaborare non significa esaminare il lavoro dell’altro e criticare, collaborare significa svolgere bene una parte del lavoro in modo da diminuire le incombenze del collega. Ma, regolarmente, Julian ha un pretesto, una giustificazione di comodo per non fare nulla.

Si arriva addirittura alla situazione in cui, Julian inizia ad esibire un certo fastidio per la professionalità che Isabel arriva a dimostrare nel portare a termine il compito. Quindi assume l’atteggiamento della vittima, di colui che viene ingiustamente emarginato, come se il mondo dovesse necessariamente ruotare intorno a lui e, qualcuno, gli stesse togliendo i meriti solo suoi.

Isabel è totalmente disorientata. Non ha più idea di come comportarsi. Perché oramai gli appare evidente che si tratta di una forma di parassitismo ai suoi danni portato avanti da una personalità narcisistica. Ma non affronta il collega. Preferisce portare a termine la pratica e terminare la collaborazione prima possibile. 

Affrontare con decisione un narcisista non è quasi mai una soluzione, perché sono abilissimi a rovesciare la realtà a loro favore, mentendo spudoratamente.


Giurisprudenza – Valutazione del Rischio




Recentemente, la Corte Suprema di Cassazione, sezione IV penale, con la Sentenza n. 13483 del 30.04.2020, ha avuto modo di ribadire che “i cardini sui quali il datore di lavoro deve fondare l’analisi e la previsione dei rischi sono, dunque, in primo luogo, la ‘propria esperienza’, in secondo luogo l’evoluzione della scienza tecnica ed, infine, ‘la casistica’ verificabile nell’ambito della lavorazione considerata”.

Da questo principio consegue in maniera diretta che “la previsione e prevenzione del rischio deve coprire qualsiasi fattore di pericolo evidenziato nell’evoluzione della ‘scienza tecnica’ e non solo dall’esperienza che l’imprenditore sviluppi su una certa attività o su uno specifico macchinario, che egli abbia potuto direttamente osservare”.

Dunque, secondo la Corte Suprema di Cassazione “non basta, cioè, a giustificare la mancata previsione del pericolo né che la sua realizzazione non si sia mai presentata nello svolgimento dell’attività concreta all’interno dell’impresa, né che esso non rientri nell’esperienza indiretta del datore di lavoro, per considerare ‘non noto’ il rischio occorre che anche la scienza tecnica non abbia potuto osservare l’evento che lo realizza. Solo in questo caso viene meno l’obbligo previsionale del datore di lavoro, cui non può richiedersi di oltrepassare il limite del sapere tecnico-scientifico, con un pronostico individuale”.

La Suprema Corte chiarisce a questo punto che “la conclusione che deve trarsi da questa premessa è che l’evento ‘raro’, in quanto ‘non ignoto’, è sempre prevedibile e come tale deve essere previsto, in quanto rischio specifico e concretamente valutabile. L’evento raro, infatti, non è l’evento impossibile. Anzi è un evento che, per definizione, prima o poi si verifica” (Corte Suprema di Cassazione, sezione IV penale, Sentenza n. 13483 del 30.04.2020).



lunedì 9 agosto 2021

martedì 13 aprile 2021

mercoledì 17 febbraio 2021

Non sei stupido, ti rendono stupido




Luisa ha vinto un concorso ed è stata assunta a tempo indeterminato in una pubblica amministrazione. Dopo aver lavorato per oltre dieci anni come Assistente al Responsabile dei Lavori in un grande cantiere, ora ha l’opportunità di trasferire la sua enorme esperienza professionale all’interno di una diversa organizzazione lavorativa, strutturata con i criteri tipici delle amministrazioni ove non è il merito che viene apprezzato.

Luisa ha portato a termine in modo brillante il suo percorso formativo universitario, ha quindi tutti i titoli per fare bene il nuovo incarico ma, stranamente, la sera torna a casa con qualcosa dentro che la rende nervosa, anche se non se lo sa spiegare.

Succede questo, nonostante lei sia di gran lunga la più preparata, la più esperta, la più seria e professionale, i suoi colleghi la trattano come una perfetta incapace. Gli incarichi che gli vengono assegnati sono marginali, quasi a volerle impedire di acquisire reputazione, quasi a deviarla su un binario morto. Oltre a ciò, la comunicazione interpersonale cambia quando si rivolgono a lei; le frasi, il tono della voce, la postura del corpo, le espressioni del viso, sono svilenti. È un modo di comunicare dall’alto verso il basso, dall’adulto alla bambina, dalla persona intelligente che si abbassa a spiegare concetti semplici ad un essere umano intellettualmente inferiore.

Luisa percepisce tutto questo come estremamente deleterio, ma resta molto stupita il giorno in cui si rende conto che, un poco alla volta, il suo comportamento cambia, e cambia contro la sua stessa volontà. Di fatto, si sta adattando alla nuova situazione con un tono della voce da persona inadeguata, sottomessa, con le spalle curve, commettendo errori che non aveva mai commesso, rinunciando a valorizzare anzi sminuendo il suo contributo allo svolgimento del lavoro. Lei è perfettamente consapevole delle sue superiori capacità, ma succede qualcosa contro la sua volontà che non riesce a contrastare.

In buona sostanza il gruppo, con la sola comunicazione, ha demolito la volontà di Luisa condizionandola e relegandola in un angolo, solo perché perdesse la sua intelligenza, le sue abilità, e non ostacolasse la carriera ed il credito di persone mediocri.

In Psicologia questa tecnica è studiata da qualche decennio, la chiamano Effetto Golem.

Una volta un Generale dei Marines disse: "Molti credono che i nostri soldati sono tutti ragazzi da un metro e novanta, con grandi capacità fisiche e perfettamente consapevoli di essere ottimamente addestrati. Non è così. Nelle nostre file ci sono anche ragazzi che superano di poco il metro e sessanta ma, ogni Marine, è convinto di essere alto un metro e novanta". In pratica, qualunque persona può arrivare a dare il meglio di sé se viene trattato in modo da favorire queste sue capacità, incoraggiandolo, formandolo, sollecitando questo processo di sviluppo interiore ed apprendimento. Ed è anche vero il contrario. Se prendi una persona estremamente intelligente e capace, e la tratti insistentemente come fosse perfettamente stupida, incoraggiando anche altri a comportarsi allo stesso modo, la vittima subirà un processo di regressione che la porterà a perdere credito, a commettere errori, a non agire più in modo razionale, a temere in modo eccessivo le reazioni avverse altrui.

Cosa può fare Luisa per contrastare questa strategia deleteria? Rafforzare la sua autostima.

Hai delle belle gambe? Valorizzale con una gonna corta. Sai scrivere in modo diretto e penetrante? Commenta ogni tanto un qualche fatto di cronaca o una qualche variazione del legislatore tramite e-mail diffusa alla piccola comunità. Hanno necessità di affidare un incarico che comporterà sicuramente dei risvolti negativi? Rifiutalo illustrando le tue buone ragioni e fai in modo che venga affidato a quello che si crede il migliore di tutti.

Ci vuole una grande forza a reagire a questa forma di condizionamento, ma è estremamente difficile arrivare ad ottenere Giustizia rivolgendosi alla Magistratura oppure ad una qualche Commissione per le pari opportunità. Sono ancora pochi coloro in grado di riconoscere e valutare questa forma di violenza. Purtroppo.



sabato 30 gennaio 2021

Parità di condizioni dignitosa per i lavoratori



Quasi del tutto sconosciuti ai non addetti ai lavori, nel nostro Ordinamento sono presenti il Decreto Legislativo n. 215 del 09.07.2003 - Attuazione della Direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, ed il Decreto Legislativo n. 216 del 09.07.2003 - Attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Il Decreto Legislativo n. 216 del 09.07.2003 in particolare, reca disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro; ma non riporta la definizione di handicap.

La Repubblica Italiana è stata condannata per non avere giustamente recepito nell’Ordinamento interno la Direttiva 2000/78/CE del Consiglio (Causa C-312/11 Commissione contro Repubblica Italiana) ed in particolare per non avere recepito correttamente e completamente l’articolo 5 che disciplina l’obbligo per i datori di lavoro di adottare soluzioni ragionevoli per le persone con disabilità. La difesa italiana ha sostenuto la seguente tesi: “non vi è nulla nel testo della Direttiva 2000/78/CE che giustifichi la posizione della Commissione secondo cui l’unica modalità accettabile ed idonea a dare applicazione all’articolo 5 di tale direttiva sarebbe l’imposizione di obblighi a carico dei datori di lavoro nei confronti di tutti i lavoratori disabili, e non quella consistente nell’organizzare un sistema pubblico e privato atto ad affiancare il datore di lavoro e il disabile”. In sostanza, la posizione dello Stato è stata che, l’attuazione della regola, può avvenire anche mediante la predisposizione di un sistema di promozione dell’integrazione lavorativa delle persone con disabilità, fondato su un insieme di incentivi, agevolazioni, misure e iniziative a carico delle autorità pubbliche e, in parte, su obblighi imposti ai datori di lavoro. Un sistema che, nel nostro Paese, sarebbe il risultato del Collocamento mirato, delle Cooperative Sociali, della Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone con disabilità, e delle Leggi speciali in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

Questa interpretazione non è stata condivisa dalla IV Sezione della Corte di Giustizia Europea, secondo la quale, al contrario, l’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE, introduce comunque un sistema di obblighi a carico dei datori di lavoro, che non possono essere sostituiti da incentivi e aiuti forniti dalle autorità pubbliche.

Alla luce di queste considerazioni la Corte in data 04.07.2013 ha ritenuto che, contrariamente agli argomenti sostenuti dalla Repubblica Italiana, per trasporre correttamente e completamente l’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE non fosse sufficiente disporre misure pubbliche di incentivo e di sostegno, essendo invece compito degli Stati imporre a tutti i datori di lavoro a livello nazionale l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo in sicurezza, di avere una promozione o di ricevere una formazione.

Per cui, con la Legge n. 99 del 09.08.2013, è stata recepita anche nel nostro Ordinamento una considerevole disposizione a tutela delle persone con disabilità: l’obbligo, per tutti i datori di lavoro, di adottare accomodamenti ragionevoli per garantire quella parità di condizioni dignitosa per i lavoratori.

In particolare l’art. 3, comma 3-bis, del Decreto Legislativo n. 216 del 09.07.2003 attualmente dispone: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della Legge 3 marzo 2009, n. 18 nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”.

La Corte ha definito l’ambito di applicazione del principio dell’accomodamento ragionevole che, al di là di quanto le normative specifiche in tema di promozione dell’occupazione possano prevedere, si estende a tutti i datori di lavoro, a tutte le persone con disabilità nell’accezione fatta propria dalla Corte Europea, ed ai diversi profili dell’occupazione, comprendendo anche l’accesso, la formazione, la tutela della incolumità e la progressione di carriera. Quindi, per l’effetto stesso del richiamo della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, il rifiuto dell’accomodamento ragionevole costituisce fattispecie discriminatoria. La negazione di soluzioni ragionevoli, anche solo organizzative, è qualificata come discriminazione, analogamente a quanto avvenuto con la Direttiva 2000/43/CE con riferimento alla nozione di molestie.

E poi, la Corte di Giustizia Europea con la Sentenza dell’11.04.2013 nelle cause riunite C-335/11 e C-337/11, ha sancito “La nozione di «handicap» di cui alla Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27.11.2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica, causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata”.

Il concetto di inabilità così argomentato, risulta essere più ampio di quello contenuto nelle diverse disposizioni previste dal nostro Ordinamento, e si estende anche alle difficoltà dovute alla condizione di chi ha subito una successione di micro traumi psicologici, agli ipersensibili, all’avanzare dell’età.

Nella stessa Sentenza dell’11.04.2013 della II Sezione, è testualmente riportato: “Con la sua terza questione il Giudice del rinvio chiede sostanzialmente se l’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE debba essere interpretato nel senso che la riduzione dell’orario di lavoro può configurare uno dei provvedimenti di adattamento contemplati da tale articolo. […] il datore di lavoro è tenuto a prendere i provvedimenti appropriati, segnatamente, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione. A tale riguardo il considerando 20 di detta direttiva procede ad un elenco non tassativo di siffatti provvedimenti, i quali possono essere di ordine fisico, organizzativo e/o formativo. Si deve rilevare che né l’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE né il considerando 20 menzionano la riduzione dell’orario di lavoro. Occorre tuttavia interpretare la nozione di «ritmi di lavoro», che compare in detto considerando, per determinare se l’adattamento dell’orario di lavoro possa essere fatto rientrare in tale nozione.

La […] e la […] fanno valere in proposito che la nozione di cui trattasi riguarda elementi quali l’organizzazione del ritmo e della velocità del lavoro, ad esempio nell’ambito di un processo produttivo, nonché le pause, in modo da alleviare per quanto possibile il carico del lavoratore disabile. Tuttavia, né dal considerando 20 né da altre disposizioni della Direttiva 2000/78/CE si evince che il legislatore dell’Unione abbia inteso circoscrivere la nozione di «ritmi di lavoro» a siffatti elementi ed escluderne l’adattamento degli orari, in particolare la possibilità, per le persone disabili che non sono o non sono più in grado di lavorare a tempo pieno, di svolgere il proprio lavoro a tempo parziale.

Conformemente all’articolo 2, quarto comma, della Convenzione dell’ONU, gli «accomodamenti ragionevoli» sono «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali». Ne consegue che detto articolo contempla un’ampia definizione della nozione di «accomodamento ragionevole». Pertanto, […] deve essere inteso nel senso che si riferisce all’eliminazione delle barriere di diversa natura che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione delle persone disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” (Cfr. Corte di Giustizia Europea, II Sezione, Sentenza dell’11.04.2013).