domenica 19 marzo 2017

Sentenza esemplare




A tutti coloro che si apprestano a denunciare avanti ad un Giudice le vessazioni subite, mi sento di poter dare un suggerimento: citate sempre questa Sentenza.

Va in generale osservato che le controversie dirette ad accertare fattispecie di mobbing comportano per loro stessa natura una penetrazione psicologica dei comportamenti, al di là di atti che possono presentarsi anche come legittimi e inoffensivi, in modo da indagarne il carattere eventualmente vessatorio, ossia dolosamente diretto a svilire, nuocere o ledere la dignità personale e professionale di un dipendente. La coscienza e volontà del mobber si pone rispetto al fatto non solo come elemento essenziale e costitutivo dell’illecito, ma come elemento idoneo persino a darvi significato: in altri termini, senza il dolo specifico del mobber gli atti potrebbero tutti apparire legittimi e leciti. Va infatti evidenziato che, come in altri casi, anche in quello in esame, i comportamenti adottati dal mobber non si estrinsecano sempre e necessariamente in conclamati soprusi, ma spesso si nascondono, in modo più sottile e insidioso, in provvedimenti che il […] giustifica in forza del suo potere-dovere di controllo e di organizzazione dell’ufficio e del personale; in sé considerati, isolatamente nel tempo e nello spazio gli uni dagli altri, potrebbero a una visione superficiale o ingenua apparire inoppugnabili, indiscutibili, volti unicamente a garantire un servizio, e quindi legittima manifestazione del potere-dovere organizzativo e disciplinare del dirigente, proposto dal datore di lavoro alla gestione del personale. La loro reale natura di atti vessatori è tradita e svelata da una serie di elementi quali la frequenza, la sistematicità, la durata nel tempo, la progressiva intensità, e, sopra e dentro tutti, la coscienza e volontà di aggredire, disturbare, perseguitare, svilire la vittima, che ne riporta un danno, anche alla salute psico-fisica” (cfr. Tribunale di Trieste, sezione lavoro, Sentenza del 10.12.2003).

Perché, anche un complimento, dato avanti ad una platea di uditori, può servire a suscitare invidia.