martedì 8 ottobre 2013

Il dirigente di una struttura pubblica è tenuto a valorizzare i collaboratori




Secondo una ben consolidata giurisprudenza la dequalificazione professionale opera sempre una lesione di un interesse protetto dall’articolo 2 della Carta Costituzionale, avente ad oggetto il diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, secondo le mansioni e con la qualifica spettantegli per Legge o per Contratto. Così, secondo i Giudici della Suprema Corte, i provvedimenti del dirigente pubblico al quale spettano i poteri di gestione (ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio della pubblica amministrazione avente autonomia gestionale), che illegittimamente recano danno a tale diritto, vengono immancabilmente a ledere anche l’immagine professionale, la dignità personale e la vita di relazione del lavoratore, sia in tema di autostima nell’ambiente di lavoro e in quello socio-familiare, sia in termini di perdita di chances professionali (Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 10157 del 26.05.2004; Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 13299 del 16.12.1992; Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 11727 del 18.10.1999).

Il dirigente di una struttura pubblica è tenuto per primo a rispettare le Leggi, a valorizzare i collaboratori e non effettuare assegnazioni eterogenee rispetto al loro ruolo professionale o volutamente riduttive del patrimonio di conoscenze e di perizia da loro globalmente negli anni acquisito. è anche tenuto a sviluppare le risorse professionali ed organizzative a lui assegnate (Decreto Legislativo n. 286 del 30.07.1999), nonché a rispettare la sfera privata del personale dipendente (Decreto Legislativo n. 196 del 30.06.2003).

Sempre secondo i Giudici vi è un principio di Diritto, più volte enunciato dalla giurisprudenza della Suprema Corte, secondo il quale, in tema di ius variandi del datore di lavoro, il divieto di variazioni in peius, sancito con norma inderogabile dall’articolo 2103 Codice Civile, opera quando al lavoratore, pur restando inalterata la sua collocazione nell’organizzazione gerarchica dell’impresa e la sua retribuzione, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, sicché nell’indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto all’inquadramento formale, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali, con le conseguenti prospettive di miglioramento professionale (Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 14150 del 02.10.2002; Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 2428 del 17.03.1999; Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 8577 del 10.08.1999; Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 10775 del 03.11.1997; Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 276 del 11.01.1995). 

Tanto che è consentito al Giudice affermare che le nuove mansioni sono equivalenti alle ultime effettivamente svolte, solo quando risulti tutelato il patrimonio professionale del lavoratore, anche nel senso che la nuova collocazione gli consenta di utilizzare ed, anche, di arricchire il patrimonio professionale precedentemente acquisito, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze, ovvero il perfezionamento e l’accrescimento del corredo di esperienze, nozioni e perizia acquisite nella fase pregressa del rapporto lavorativo (Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 3623 del 28.03.1995; Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 9319 del 26.01.1993; Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 24293 del 29.09.2008).

Per aversi dequalificazione professionale a carico del lavoratore è infatti sufficiente che il datore di lavoro, nell’esercizio del suo potere di modifica delle mansioni, non rispetti il criterio di “equivalenza” sancito dall’articolo 2103 Codice Civile ovvero, in particolare per un funzionario pubblico, sottoponga il lavoratore ad un processo di erosione di competenze o responsabilità, oppure sottragga al lavoratore le mansioni di ultima attribuzione per lasciarlo in uno stato di sostanziale inattività

La Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che l’articolo 2103 Codice Civile non ha soppresso lo ius variandi che trova la sua giustificazione in insopprimibili esigenze organizzative ed aziendali, ma si limita a regolarne l’esercizio senza alcuna deroga al potere del datore di lavoro di utilizzare o meno il dipendente in nuove mansioni per esigenze organizzative dell’impresa, sempre nel rispetto, oltreché dell’equivalenza delle nuove mansioni, della tutela del patrimonio professionale del lavoratore e della sua collocazione nella struttura organizzativa aziendale, nonché dell’esigenza che la nuova collocazione gli consenta di utilizzare ed anche di arricchire il patrimonio professionale precedentemente acquisito (Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 3623 del 28.03.1995; Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 276 del 11.01.1995). 

Anche la modifica quantitativa delle prestazioni, ove comporti un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con una sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite e un consequenziale impoverimento della sua professionalità, sostanzia una dequalificazione professionale (Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 6856 del 19.05.2001). Ed in relazione all’inattività, che costituisce fattispecie più pregiudizievole della sottrazione delle mansioni originarie con assegnazione di altre deteriori e non equivalenti, la Suprema Corte ha asserito che una violazione della lettera e della ratio dell’articolo 2103 Codice Civile si sostanzia anche quando il dipendente sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del soggetto. Coerente è pertanto l’affermazione che detta norma sia tesa a far salvo il diritto del lavoratore all’utilizzazione, al perfezionamento ed all’accrescimento del proprio patrimonio professionale (Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 10405 del 04.10.1995). 

Con la stessa pronuncia la Suprema Corte ha poi sancito, in tema di riduzione quantitativa dei compiti e delle responsabilità del lavoratore, che il potere del datore di lavoro di ridurre quantitativamente le mansioni del lavoratore trova limite nell’esigenza delle potenzialità professionali acquisite o nel divieto di occasionare una sottoutilizzazione del patrimonio professionale del lavoratore, avuto riguardo non solo alla natura intrinseca delle attività esercitate, ma anche al grado di autonomia e discrezionalità nel loro esercizio nonché alla posizione del dipendente in azienda, sicché deve ritenersi vietata una modifica delle mansioni assegnate al dipendente che, pur se di carattere quantitativo, si traduca in un sostanziale declassamento del dipendente stesso (Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 10405 del 04.10.1995; Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 10284 del 04.08.2000; Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza n. 7967 del 01.06.2002).

E’ necessario anche precisare che la Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la Sentenza n. 4774 del 06.03.2006, in materia di reiterate azioni ostili inquadrabili come una forma di terrorismo psicologico, ha chiarito che non occorre poi una specifica inadempienza contrattuale o una violazione di norme a tutela del lavoratore subordinato. Il terrorismo psicologico in ambito lavorativo sussiste semplicemente se la condotta del datore di lavoro ha assunto nel tempo sufficiente idoneità offensiva, e di natura vessatoria tale da comportare una lesione dell’integrità psicofisica e della personalità morale del lavoratore. La Suprema Corte ha espressamente fatto riferimento all’articolo 2087 Codice Civile, laddove vincola l’imprenditore ad adottare tutte le misure che, secondo la particolarità della prestazione, sono idonee a rispondere all’obbligo di sicurezza delle condizioni di lavoro. Occorre dunque riscontrarsi una condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente, e la stessa può realizzarsi con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall’inadempimento di specifichi obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato.