venerdì 5 settembre 2014

Le riorganizzazioni di facciata per salvare la poltrona




Ritorniamo all’esempio di fantasia che ipotizzava l’evoluzione dell’ambiente di lavoro di una grande multinazionale che produce veicoli stradali e da cantiere, descritta nel post Lo schema dei manipolatori.

Nella filiale di Poggibonsi il dirigente Mario, dopo la nomina del coordinatore, attraversa alcuni anni di sostanziale lavoro stabile, senza grandi scossoni. Finché non arriva la crisi economica che si è palesata nel 2008. Nel giro di sei mesi il suo ufficio ha visto praticamente dimezzare gli ordini e la direzione aziendale lo ha già convocato una volta. Sono seriamente preoccupati. 

Per Mario questa è una complicazione non da poco, perché lui ha sempre visto il suo attuale compito professionale come un trampolino, una rampa di lancio per nuovi e più prestigiosi incarichi. Nella sua mente lui avrebbe dovuto permanere in quell’ufficio per circa due o tre anni, per questo non si è preso cura di migliorare l’organizzazione. Era importante solo spremere per mostrare i risultati e fuggire.

Ora però la realtà è cambiata e, per dirla alla Luigi Tenco, si è alzato il mare e gli uomini senza idee per primi vanno a fondo.

E’ così che Mario decide di attuare una strategia di rilancio, ma non del suo ufficio, bensì della sua immagine. Deve cambiare tutto per far sì che non cambi nulla.

Pianifica una radicale ristrutturazione dell’organizzazione che comporta: la diminuzione dei salari per gli impiegati e per gli operai; l’eliminazione di intere attività con trasferimento del personale in altre sedi anche molto distanti; l’ampliamento di alcuni servizi con orari maggiormente flessibili per gestire le transazioni in tempo reale anche con clienti internazionali; la drastica diminuzione delle procedure di controllo qualità e di sicurezza.

Presentato con enfasi il progetto alla direzione aziendale, ottiene il via libera per operare. E Mario non perde tempo per mettersi in mostra. Perché la riorganizzazione proposta, a voler vedere le cose dall’alto, non ha una vera ricaduta in termini di efficienza, di miglioramento del prodotto o diminuzione degli sprechi. Questa riorganizzazione non è significativa sul piano sostanziale, ma è un modo per mettere se stesso al centro delle iniziative, per non subire, per aggredire per primi. In questo modo Mario potrà mostrare di essere persona moderna, un brillante organizzatore, ingegnoso, quindi indispensabile per l’azienda. 

La situazione prende una brutta piega nel momento in cui gli operai gli si rivoltano contro. Il modo di fare del dirigente è autoritario. Impone con determinazione eccessiva la propria linea di condotta. Non accetta di modificare una virgola, non ascolta le esigenze umane di chi realmente lavora. Tratta le persone come fossero numeri. Vuole arrivare alle modifiche che ha già venduto ai suoi superiori ed è pronto a tutto per ottenerle. Le riunioni sindacali non servono a nulla, finge di ascoltare ed usa la dialettica per contrastare anche la minima rivendicazione. Minaccia licenziamenti. Ovviamente i lavoratori non la prendono bene e scrivono una lettera al Chief executive officer, il direttore generale ed amministratore delegato americano che presiede il consiglio di amministrazione. 

L’amministratore delegato decide di approfondire e manda un supervisore. La strategia ingannevole di Mario è debole, viene subito individuata. Così l’azienda riconosce che è molto più importante mantenere la forza lavoro con il know-how raggiunto dai lavoratori, piuttosto che assecondare le vuote ambizioni personali di un manager opportunista e senza scrupoli. Per cui Mario viene promosso e mandato a dirigere un ramo laterale dell’attività produttiva, dove difficilmente potrà ancora fare danni.