venerdì 5 dicembre 2014

La strategia del terrore nei luoghi di lavoro




Nella strategia terroristica, in generale, l’attore colpisce attraverso iniziative particolarmente violente creando, non tanto un danno tattico o logistico come Carl Von Clausewitz ha teorizzato per la battaglia campale, ma modificando in modo traumatico la percezione sociale del nemico. Così, puntando a destabilizzare l’equilibrio emotivo dell’avversario, a minarne le sicurezze, ad isolarlo dalla comunità sociale, causa distorsioni cognitive in grado di produrre effetti sulla collettività intera.

Questa strategia non vale solo nei Paesi del Medio Oriente, in Israele, in Belgio o in Germania; questa strategia è utilizzata anche negli ambienti di lavoro. Perché il fine è analogo: eliminare un individuo o un gruppo scomodo, rafforzare la coesione del gruppo violento, disintegrare l’unità morale del gruppo contrapposto, destabilizzare e far intravedere la distruzione per ottenere l’allontanamento volontario, creare panico, terrore.

Per essere efficace la strategia terroristica ha necessità di altre due componenti fondamentali: la comunicazione capillare del fatto violento e l’inerzia degli organi istituzionali in grado di far percepire la sfiducia nella loro capacità di garantire l’incolumità del lavoratore.

L’azione bellica ha la sua efficacia quando riesce a provocare reazioni emotive traumatiche o micro-traumatiche. E’ bene, quindi, apprendere a non reagire in modo impulsivo alle provocazioni. Anche se il nostro corpo somatizzerà la violenza subita, è preferibile non cadere nella trappola, non perdere la calma e mantenere freddezza. Il momento favorevole arriverà.

Quando, nei luoghi di lavoro, accadono eventi riconducibili allo schema appena descritto, non è possibile parlare di conflittualità dovuta ad invidia o gelosia professionale. Perché queste sono azioni di guerra. Guerra non convenzionale, ma pur sempre guerra. E, come dicono i francesi, è bene andare alla guerra vestiti come per la guerra.